Individualismo e pessimismo dei Sardi – Perché la costanza ci salverà

Cari Amici,

Recentemente, mi è capitato di scambiare 4 chiacchiere con un amico che non vedevo da qualche tempo e, come prevedibile tra coloro che hanno analoga sensibilità per la politica ed il sociale, una discreta parte dell’incontro è stata impegnata da tali tematiche.
Per inciso: La sua breve esperienza in un noto partito italiano e l’attivismo condotto nel quadro della vita del suo paese lo avevano indotto ad abbandonare la politica, o meglio, la volontà di schierarsi. Ma in fin dei conti, come ogni buon arguto osservatore ed appassionato di politica, non aveva mai smesso di interessarsi al “chi, come, quando e perché” ogni singolo individuo andasse a comporre una data lista civica in fase di elezioni.
La cosa triste, ma risaputa, è che buona parte dei nomi contenuti in quella lista che si portava in tasca non avevano coscienza di sé: Nella misura per cui, alcuni, erano all’evidenza stati candidati sia per via di una giovane faccia da esibire (e quindi “comunicativamente” spendibili), sia per colmare un buco che, piuttosto banalmente e per una somma di voti, andava riempito. Il tutto ovviamente a sostegno dei bellimbusti di turno, smaniosi di orientare come burattinai qualche sottoposto e dare continuità ad un sistema che deve continuamente rigenerarsi. Oggigiorno i “segretari” ed i “portavoce” di questo o quel posto nascono anche così. E per la verità, tra una cena e l’altra, è sempre stato così.
Il mio amico, stando a quanto affermava, aveva rinunciato alle lusinghe di pochi. Se non lo avessero sottovalutato, non gli avrebbero proposto alcunché: Sia perché esiste ancora una dignità a questo mondo e non ci si candida per sottostare ad un “circolo” di fanfaroni in cambio della gestione di un’attività; e sia perché, materialmente – il ginepraio burocratico, in taluni casi le deficienze di bilancio, ma sopratutto gli stessi componenti del “club” – sarebbero stati tutto, meno che validi elementi per condurre una buona politica nell’interesse della collettività.
Ed io che, ahimé, ho conosciuto la macchina amministrativa per interposta persona, a causa di intimi che la guidarono (ma anche, purtroppo, che ne abusarono) – e non faccio che ricevere considerazioni, commiserazioni, minuziose relazioni e spesso beata ingenuità di amministratori pubblici da mezza Sardegna su qualsiasi aspetto della vita burocratica – pur confidando nelle capacità di pochi, ho temporaneamente scelto di non correre per la poltrona di alcuna carica, poiché mi sarei automaticamente trovato nella posizione di dover compiere una scelta etica: O raccontare letteralmente balle e proseguire la “normale” amministrazione con personaggi che di sviluppo ne sanno quanto l’occhio vitreo di un merluzzo esposto al mercato del pesce…Oppure, ovviamente, rinunciare al proprio mandato e dedicarsi ad altro: Specie se si ha già un lavoro e non si ha bisogno di fare una dichiarazione dei redditi gonfiata da uno stipendio pagato dalla collettività.
La scelta quindi è stata preventiva: Evitando da subito la rogna di trovarsi in quella condizione (laddove non si condivide il tasso culturale dei “convitati al banchetto”).
Alcuni invece saltano il fosso, perché “l’occasione fa l’uomo ladro”: individui alla ricerca di una facile quanto effimera “affermazione di se stessi” nella propria comunità, nonché ovviamente per tirarci su qualcosa da intascare. La faccia chiaramente passa in secondo piano. Al contrario, far parte della “torta da spartire” diventa quasi motivo di orgoglio sociale. Poco conta che in certi casi la “torta” sia poco più di un pasticcino.
Dopottutto, meccanica classica della fidelizzazione, è quella di “lanciarne 1” per coltivarne (elettoralmente parlando) 100. Gli esclusi staranno alla porta, magari aspettando e sperando.
Che pena.
Ma insomma, dicevo, questo amico, abbandonata la politica del volto in primo piano, adottò una filosofia di vita per certi versi condivisibile: Sorridere a tutti, preservare una dignità personale prima che sociale, ed ovviamente difendersi dal sistema. Non certo “rubando” a sua volta, ma sviluppando una propria individualità nel quadro del sistema.
Riflettendoci sopra, tutt’ora, non mi sento di condividere completamente tale impostazione. Sebbene da tempo non mi curi neppure più di guardare nomi e candidati di questa o quella lista, quella notte mi tornarono in mente in ordine sparso le severe parole di Gramsci:

“L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi.

Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto”.

Parole forti in tempi non sospetti, correvano gli anni bui del primo conflitto mondiale e ci si avviava verso gli autoritarismi del secondo.
Gramsci, che di Sardi se ne intendeva, fu uno dei più celebri intellettuali ed osservatori del suo tempo. Ma contestualizzare ai Sardi del presente lo scarso interesse per il protrarsi di una situazione indegna con simili affermazioni sarebbe troppo pesante. Altri dopo di lui si soffermarono non tanto sul Popolo Italiano ma più specificatamente proprio su quello Sardo, elaborandone di volta in volta un perimetro ideologico-identitario e persino una misura di alcuni comportamenti statici (e delle loro deformazioni) che nomi come Michelangelo Pira ed Antonio Pigliaru hanno sapientemente rappresentato in testi come “La rivolta dell’oggetto” del primo e come il più ampio corpus di riflessione sulla “vendetta barbaricina come ordinamento giuridico-sociale” del secondo.
Del mio amico scorgo la formazione di impronta PCI all’apogeo del più ampio movimento culturale italiano avvenuto nelle prime crisi industriali dopo il boom economico. Scorgo dunque la forte venatura attivistica tipica di quella stagione politica, come scorgo la successiva grande lezione morale di Berlinguer. Scorgo in essa quella visione di democrazia partecipativa dal basso che allontana il mio amico da qualsiasi tentativo di attribuirgli colpevole indifferenza per l’andamento degli eventi: ma non ne condivido l’orizzonte pratico sotto il profilo delle finalità e della visione del sistema. La politica è oggi qualcosa di sociologicamente più esteso. Nel senso che in società ed istituzioni (come le nostre) che hanno portato ad una compressione degli spazi democratici reali e ad una quasi parallela assenza di formazione culturale prima che politica, il prodotto non poteva essere che quello che abbiamo davanti agli occhi ogni giorno.
Del pensiero di Gramsci dunque, eludendo il risentimento e la condanna sull’indifferenza generale, possiamo contestualizzarne specifici passaggi, quali ad esempio la riflessione su cosa abbiamo fatto in termini concreti per migliorare il sistema.
Ma a questo punto il discorso si allarga:
Il progressivo affacciarsi della moderna politologia, il superamento di vecchi convincimenti (dovuti al crollo del Muro di Berlino) e la conseguente apertura in tutto l’occidente allo sviluppo ed all’analisi delle tendenze attive presso la Pubblica Opinione, ha portato diversi modelli politici nazionalisti ad analizzare (con successo) le ragioni dei comportamenti endemici ai loro territori e ad un’aperta critica verso il sistema istituzionale che ne perpetuava gli aspetti negativi e poco virtuosi.
Tra di questi, l’imponente attività sociale determinata dai mass-media e dalla proliferazione di messaggi tesi ad uniformare caratteri, vizi e virtù, comuni tanto ai cittadini più qualunquisti quanto ai politici professionisti.
Al termine del secondo conflitto mondiale il sociologo francese Maurice Halbwachs elaborò la teoria della memoria collettiva: Molto semplicemente, in essa, una data popolazione vivente, usa riversare miti ed esperienze correnti, talvolta abbinandole ed integrandole al proprio passato. L’anello di congiunzione insomma tra la consapevolezza di appartenere ad un territorio (emotività nazionalista) e dei luoghi comuni. I quali sono più o meno veritieri ma non necessariamenti diffusi secondo i pareri soggettivi. Un esempio pratico?
Il pessimismo diffuso che abbiamo noi Sardi sull’operato dei nostri conterranei.
Il mio amico sosteneva (e sostiene) che persino l’aprirsi un’attività commerciale in questo luogo sia un esercizio alquanto rischioso in relazione al comportamento del vicino ma anche del comportamento istituzionale. E non è sbagliato, ma è casomai sbagliato il livello di preoccupazione che egli riversa in tale prudenza ed è inoltre non idonea la prospettiva di risoluzione di quel problema nel medio-lungo termine.
Nell’ottica per cui, se non si insiste mai per migliorare qualcosa, questa ovviamente rimarrà immutata nel tempo. Eppure, i tassi di crescita economica e culturale dell’isola sono tutt’altro che statici (considerando, per interesse cronologico a noi più vicino) gli ultimi 15 anni.
Lo stesso Presidente Cappellacci, incautamente inciampato in questa nefasta branca della memoria collettiva, ultimamemente è balzato alle cronache per una nota intercettazione nella quale si rammaricava della mentalità locale, e non ci siamo sentiti in dovere di biasimarlo troppo. Parole che altrove avrebbero portato a dimissioni immediate per mancanza di fiducia sul proprio Popolo.
Ma buonsenso vuole che simili considerazioni sullo stato sociale del Popolo vengano fatte non sulla base di percezioni soggettive ma con dati alla mano, e i dati non sono necessariamente concordanti con quanto è lecito luogo comune pensare:
Gli ultimi bollettini della Magistratura ad esempio parlano di un tasso di criminalità (relativo al settore economico) più o meno in linea, se non inferiore, a quello di altre regioni della Repubblica.
Il crimine organizzato nell’isola rimane una realtà circoscritta o inesistente, eccetto comunque le nuove penetrazioni (da parte di associazioni criminose non Sarde) nel nord’est dell’isola e nel Cagliaritano, più che altro attive nel reinvestimento immobiliare di denaro sporco, nel classico mercato delle sostanze stupefacenti e della prostituzione (oltre che delle armi).
Non si riscontrano considerevoli “taglieggiamenti” o intimidazioni a carico delle singole attività.
Fino a qualche anno fa noi stessi ritenevamo l’opposto. Fenomeni comunque comprimibili da un efficace sistema di prevenzione di Pubblica Sicurezza nel territorio.
La spiccata percezione soggettiva e collettiva del fenomeno è spiegabile con la bassa incidenza demografica delle comunità in cui si consuma lo specifico reato: Se ad esempio in una X popolazione di soli 5000 abitanti due (sole) attività vengono colpite, automaticamente, la poca popolazione riterrà che esiste una considerevole percentuale Y di possibilità di venire ostacolati a propria volta se si intraprenderà un’attività commerciale dalle comuni chances di riuscita sul mercato locale.
Ma a parte il caso limite della criminalità e della malelingua votata alla distruzione sociale ed economica del malcapitato (per gelosie ed endemiche avversità dovute alla storica condizione insulare dei Sardi); vi è alla base il problema burocratico-istituzionale.
Quello da cui ne consegue la pressione fiscale, nel nostro caso, non calibrata come un effettivo sistema federale potrebbe o dovrebbe suggerire: Con aziende non solo esposte al più globale effetto della recessione internazionale, ma inibite dalle fondamenta sulla possibilità di assumere e pagare in misura soddisfacente un dipendente, in ragione dell’eccessivo carico contributivo e dell’imposizione fiscale complessiva gravante sulle imprese e le persone fisiche.
L’Associazione per la Piccola e Media Impresa Sarda (API) e la Confindustria Sardegna ci presentano un conto salato e condito dai soliti elementi sopra descritti: Eccesso di burocrazia, di pressione fiscale; difficoltà di accesso al Credito ed anche scarsa – se non inesistente – formazione manageriale.
L’insieme di questi elementi, unitariamente alla deriva della disoccupazione, spingeranno (come è sempre successo) la domanda di lavoro ad una maggiore flessibilità in termini di emigrazione:
Senza un’architettura istituzionale idonea (che determini una formazione scolastica professionale; una coordinazione tra i vari settori economici; ed un intervento delle istituzioni) siamo destinati a perpetuare quel deleterio pessimismo per qualche tempo ancora. Pensate, si stima che fuori dalla Sardegna vi sia un’altrettanto milione e mezzo di Sardi.
Costoro (se si osservano i casi più illustri), non solo hanno consolidato una propria posizione sociale ma sono addirittura emersi in uno Stato (come quello italiano) di oltre 60 milioni di abitanti.
All’Italia abbiamo fornito migliaia di ingegneri, soldati, artisti, letterati, politici, ecc; una sterminata classe dirigente che al posto di investire in Sardegna è stata condotta da un sistema istituzionale centralista alla costrizione di dover lasciare il nostro territorio per sopravvivere. Mentre chi è rimasto, o si è dovuto “difendere” dal sistema come il mio amico, o si è piegato, come terzi, a meno che non si sia direttamente spezzato.
In Sardegna oggi, lentamente, e grazie – non all’indifferenza – ma sopratutto alla costanza di una minoranza, temi un tempo periferici e marginali (ma fondamentali) sono divenuti oggetto di dibattito generale: Non tutto è perduto.
La più grande minoranza linguistica dello Stato Italiano, quale noi siamo, dovrà pur ricordarsi che in rapporto al nostro numero di abitanti abbiamo uno dei più alti tassi di produzione letteraria esistenti. E non solo rispetto ad altre regioni italiane ma anche rispetto ad altre comunità minoritarie d’Europa. Se pensiamo che questo sia un Popolo privo di spina dorsale sullo spirito di andare avanti, allora non abbiamo capito proprio nulla del Popolo Sardo.
Tutte le restanti paure saranno spazzate via da una maggiore apertura dell’isola ai mercati, mercati che solo potenziando il nostro livello di Sovranità potremo conquistare.

Un dibattito, che per quanto scarno, attorno al tema delle riforme, esiste. Se vogliamo evitare che la montagna partorisca il topolino, non possiamo fermarci proprio adesso.
Non possiamo usare il nostro tempo solo per “difenderci” unendoci de facto alla grigia e silenziosa linea di quel fato ineluttabile che ci lega ad un pessimo costume di vita.
Il tempo dell’attivismo dal basso nella Sardegna contemporanea è finito: è finito nel momento in cui non abbiamo capito che tutto il nostro attivismo era rivolto verso modelli culturali ed economici difformi dalle specifiche esigenze della Sardegna.
Una battaglia contro i mulini a vento, in un sistema iniquo. L’Italia centralista aveva invece sempre teso ad omologare tutto e tutti: Politiche e comportamenti.
E’ solo nel 2010 che abbiamo capito di avere esigenze occupazionali, economiche e fiscali, oltre che identitarie ed ambientali, diverse dal resto della Repubblica: Pur considerando la stessa fonte Costituzionale che genera analoghi problemi (ma spalmati su un tessuto sociale ed economico diverso) nella Penisola Italiana. Queste esigenze oggi passano e stanno passando per la necessità di riscrivere lo Statuto Autonomo Sardo. La competenza va formata, e quando viene formata, non deve abbandonare la propria terra.
Estraniarci dal dibattito non servirà a ridurre i margini di quel pessimismo che ci trasciniamo dietro. Al contrario: Lo alimenterà anche nei nostri figli. Lo stesso, forse, che intimamente spinse un personaggio come Emilio Lussu ad abbandonare il Sardismo per concludere la sua rispettabile carriera politica nella disordinata famiglia del socialismo italiano. I Sardi si trascinano dietro un costrutto storico denso di sconfitte ma di grande orgoglio, un passato condiviso con la meno (ma pur sempre) individualista famiglia italiana: anch’essa riunita sotto uno stemma Sabaudo che ha dovuto coprire con coercizione la realtà di un’Italia culturalmente divisa in microstati da secoli.
Ma anche le minoranze sono democrazia, come anche in esse germoglia il seme del bene pubblico. Minoranze che se non frammentate, in un ottica bipolare, condizionano le maggioranze.

All’attivismo dal basso va dunque coniugata una efficace stagione di riforme dall’alto, pena l’inutilità del primo. Sarà l’organicità della struttura stessa del federalismo su cui dovremmo dibattere ad eliminare le zone d’ombra dell’attuale sistema che consentono al parassitismo di moltiplicarsi e rigenerarsi in un circolo tanto vizioso quanto letale per la nostra tenuta sul territorio. Non arriveremo comunque all’Eden, ma è nostro dovere insistere.

Perché tutto questo non è una battaglia persa? Non si tratta solo di tecniche da viral marketing. Non è vero che va tutto male.

Le proposte istituzionali si sono fatte. Altre si faranno.
La politica, sia essa per interesse o per propaganda di varia natura, si è mossa e si sta muovendo.
A noi spetta il compito di non abbandonare il percorso, perché diversi popoli – e situazioni più chiuse ed autoreferenziali della nostra – sul versante delle riforme e grazie alla costanza ce l’hanno fatta.

Del mio amico spero non passi la vita a “difendersi”, non solo perché ha idee ed energia da valorizzare, ma perché, come tanti di voi che ci seguite, sapete benissimo che dedicare un po di tempo alla collettività, anche col dibattito culturale, non ci toglierà nulla.
Non solo preserveremo quella dignità a rischio, ed a differenza di ciò che ci recriminerebbe oggi Gramsci, non avremo il rimpianto di non averci provato.
E per “provare” non intendiamo solo il (comunque) decoroso impegno politico dal basso, in un sistema cristallizzato, ma il più ampio respiro della dimensione politico-culturale che oggi da nord a sud, da est ad ovest, sta attraversando l’isola.
In 5 anni abbiamo assistito ad un’evoluzione del circuito autonomista ed indipendentista che stimavamo cambiasse in non meno di un decennio, quello stesso circuito che sta infuenzando il bipolarismo italiano in Sardegna. Non fermatevi per nessun motivo.

Fortza Paris!

Di Bomboi Adriano.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi

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