Dramma Sulcis e Alcoa: Le possibilità del futuro
“L’Italia condiziona la nostra pianificazione economica, guida le nostre ricerche di energie dal sottosuolo e ci impedisce la ricerca petrolifera nello zoccolo marino”.
Antonio Simon Mossa, Ollolai 1967.
Che differenze ci sono oggi rispetto al contesto politico e amministrativo del 1967? Tante e nessuna allo stesso tempo: per un verso, la Sardegna non ha migliorato la sua sovranità al fine di guidare la programmazione economica rispetto alle priorità dello Stato (non sempre coincidenti); per altro verso, è aumentata la percezione del fallimento di un modello di sviluppo incentrato sulla grande industria (che tuttavia non si è espresso in alcun serio progetto complessivo di riconversione economica).
Sul caso del Sulcis, sull’Alcoa e, più in generale, sullo stato di salute della grande industria Sarda, la stampa e il web hanno ormai detto tutto e il contrario di tutto. Per quanto riguarda l’Alcoa, se risulta opinabile l’affermazione secondo la quale per l’Italia sarebbe “strategica” la produzione di alluminio, ancor di più risulta opinabile che questo settore possa essere considerato “prioritario” per gli specifici interessi della Sardegna. L’Alcoa abbandona la Sardegna a favore dell’Arabia Saudita, dove il minor impatto della bolletta energetica e dei costi della manodopera risulta più conveniente per le proiezioni di mercato in cui si è indirizzata la multinazionale USA. L’ultima speranza per lo stabilimento Sardo è stata quella della possibile acquisizione da parte della Glencore svizzera, ma sarebbe bene passare oltre e predisporre un piano di transizione verso il futuro. A tale riguardo sono interessanti le tre proposte effettuate a gennaio dall’economista Francesco Pigliaru, già proposte in ordine sparso dal nazionalismo Sardo, che prevedono: 1) Garantire un reddito minimo agli operai che si avviano alla disoccupazione; 2) individuare dei servizi di orientamento e formazione di alta qualità per il loro reinserimento nel mondo del lavoro; 3) garantire la nascita di nuove attività produttive, attraverso un processo di deregulation burocratica e senza il conferimento di denaro pubblico a pioggia verso le nuove aziende.
C’è da dire, come ci ricorda Mario Carboni, presidente della Fondazione “Sardegna zona franca”, che Pigliaru a suo tempo è stato organico proprio a quella classe politica centralista e sindacale, di destra e sinistra, che per lungo tempo ha illuso gli operai prospettando il futuro della grande industria in Sardegna, nonché continuando nello sperpero di risorse pubbliche per tenere in vita aziende che, in questo specifico contesto, si sono rivelate palesemente fuori mercato. A prescindere dai costi energetici su cui tutti, a ragione, addossano anche all’Enel una consistente dose di responsabilità.
Non fa eccezioni la gestione regionale della Carbosulcis, dove evidenti lottizzazioni politiche si sono sommate ad una mancata pianificazione di un indotto industriale anch’esso giunto al tramonto del proprio ciclo produttivo. La solidarietà politica agli operai si è tramutata nel proporre un faraonico progetto di riadattamento del sito minerario al fine di produrre “energia pulita” tramite lo stoccaggio di CO2, con costi stimati attorno al miliardo e mezzo di euro e con benefici tutt’altro che garantiti. Una cifra simile potrebbe essere spesa per un reale progetto di riconversione dell’industria locale, capace di proiettarsi oltre le poche centinaia di operai ingabbiati in questa triste vicenda. A tale proposito è evidente che la mala politica cercherà di prendere tempo senza mutare orientamento.
Nel timore di una prossima campagna elettorale, solo poche personalità politiche (e ben poche accademiche) hanno avuto il coraggio di parlare di responsabilità e “conversione economica”, oltre al classico indipendentismo (come SNI e IRS), ad esempio la CSS, Fortza Paris, il movimento Rossomori, e Claudia Zuncheddu (Sardigna Libera), che nei dibattiti sulla scontata mozione unitaria del Consiglio Regionale sulla crisi dell’industria non ha mancato di sollevare il tema. La Zuncheddu ha posto l’accento sulla necessità di procedere alle bonifiche delle aree inquinate dagli attuali impianti industriali. Un processo di riconversione del sistema economico che potrebbe garantire l’assorbimento della manodopera lasciata allo sbando dalla desertificazione industriale del territorio.
Il movimento “Quinto Moro” di Andrea Prato (la tredicesima e forse poco utile sigla politica regionalista) parrebbe disponibile a seguire lo stesso orientamento. Auspicando che, se e quando partirà un simile impegno di “ripulitura ambientale”, non passi in secondo piano rispetto a casi mediatici più noti, come quello dell’ILVA di Taranto.
Ma come attivare una riconversione economica del territorio evitando le scorrerie di aziende che arrivano e partono senza stabilizzare l’attività? Non certo attraverso la parata delle “frecce tricolori” vista a Buggerru, dove una località dall’alto potenziale turistico (grazie alla promozione dell’archeologia industriale) potrebbe attirare numerose visite tutto l’anno. Neppure attraverso la questua petulante e priva di responsabilità che la classe politica centralista locale rivolge allo Stato, concausa dei problemi.
Piuttosto, in esecuzione dell’art. 12 dello Statuto Autonomo, sarebbe tempo di avviare i punti franchi già individuati ma mai delineati (come ad esempio nell’area industriale di Portovesme) al fine di defiscalizzare il costo del lavoro e attirare nuovi capitali capaci di rilanciare l’economia e l’occupazione del territorio. Non solo turismo dunque ma anche conversione del comparto manifatturiero attraverso un modello aziendale meno impattante sotto il profilo ambientale e non energivoro. Attirare capitali consentirebbe di avviare in loco nuove aziende (nel settore della logistica, della produzione e della trasformazione) capaci di trascinare con se anche un know-how di conoscenze e professionalità indispensabili alla crescita del nostro tessuto economico, senza il quale non vi è consolidamento e diffusione dell’eccellenza.
La naturale conseguenza di questa nuova dimensione economica favorirebbe nel territorio l’emersione di altre peculiarità che permetterebbero alla Sardegna di trasformare i disagi dell’insularità in vantaggi, a loro volta determinati dalla nostra favorevole posizione nel Mediterraneo occidentale. La riconversione in chiave turistico-alberghiera dei vecchi impianti industriali è una delle occasioni con cui oggi l’occidente sta assorbendo i contraccolpi di una spostamento verso oriente della grande industria che un tempo occupava i più grandi porti e spazi industriali d’Europa (e in parte del nord America). Questo avviene mediante il rilancio del settore edile e soprattutto evitando inutili e dannose cementificazioni. La Gemini residence di Copenaghen in Danimarca, dove due silos sono stati trasformati in abitazioni, è uno dei più grandi esempi internazionali di riadattamento economico all’insegna dell’ecosostenibilità e del design. Si tratta ovviamente di risultati che solo attraverso i benefici della zona franca potrebbero consentirci di attirare i necessari capitali di investimento di cui nel territorio non disponiamo. Ciò non implica tuttavia che lo Stato debba chiamarsi fuori da un processo di rilancio, a fronte delle numerose sperequazioni causate alla Sardegna.
Tra le varie opportunità mai avviate nell’isola vi sarebbe quella di sviluppare un indotto che nel tempo ci permetterebbe notevoli opportunità di crescita, non stiamo parlando dell’agroalimentare o dell’artigianato (anch’essi importanti) ma della logistica e della cantieristica nautica: la nostra posizione determinerebbe nuove possibilità d’investimento nel mercato grazie alla potenziale opera di raccordo per merci ordinarie e produzioni di lusso tra l’Europa e i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, con riferimento al Medio Oriente e alle nuove opportunità dell’est. Non pensiamo ovviamente di spodestare i grandi gruppi cantieristici di Italia, Olanda e Turchia (per citarne alcuni) ma sicuramente potremmo attirare operatori interessati a delocalizzare impianti dall’alto profilo professionale in zone dal basso costo del lavoro. Questo riguarderebbe anche diverse potenze economiche munite di aziende prive di sbocco diretto verso il Mediterraneo (pensiamo alla Germania ma anche alla Svizzera), con potenziali ricadute in termini di capitali e competenze da trasferire nel territorio, rispetto alla concorrenza di altre località, come la Repubblica di Malta. Ma potremmo anche diventare hub di importanti compagnie dei trasporti, aerei e marittimi.
La Sardegna può e deve tornare protagonista internazionale sui mari che la circondano.
Di Melis R. & Bomboi A.
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Altri interventi sul tema:
- On. Paolo Maninchedda (PSD’AZ).
U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi
La R.A.S. lo sanno tutti non è minerale con alto tenore di Sovranità. Tutt’altro. Il progetto di sviluppo attuale è finito. Una classe politica e di dirigenti ha fallito. Allora bisogna avere il coraggio di fare un atto di coraggio: ci vuole un atto di rottura e di conseguenza un atto di discontinuità. Basta con queste cerimonie! Basta Roma, basta viaggi! I sardi, gli operai del Sulcis facciano un atto rivoluzionario. Pensino al futuro dei figli, a chi non ha mai lavorato nei suoi 40 anni di vita ed è senza speranza. Pensino ad un nuovo piano di sviluppo con radici profonde nella nostra terra. Perché solo questi resistono ai terremoti della globalizzazione. Allora? Mettere il culo nella sedia e studiare altro sviluppo che sia per tutti. Basta con i rituali della solidarietà che non si nega a nessuno, ci vuole altro. Bene Riva. resta sempre il più lucido dei “continentali-sardi”.
a nos biere
[...] Come favorire una riconversione economica del territorio e salvare gli operai? Intanto facendo valere l’art. 12 dello Statuto Autonomo, delineando i punti franchi per defiscalizzare il costo del lavoro e dell’energia, attirando nuovi capitali (art. Sa Natzione). [...]