MPS? Bene o male, le chiudende furono un successo. Ecco perché
Leggo l’articolo del professor Francesco Casula sui pastori Sardi e non posso fare a meno di notare alcuni elementi peculiari sulla natura del pastoralismo in Sardegna. Il primo mi trova perfettamente d’accordo con l’autore: l’organizzazione dei pastori Sardi (MPS) ha di fatto demolito il mito del Sardo diviso e incapace di collaborare. La categoria professionale che per lungo tempo è stata indicata come la più rappresentativa dell’economia isolana (ma il P.I.L. regionale del nuovo secolo non la pensa allo stesso modo) è proprio oggi la categoria che più di altre ha lavorato per unire sotto ad uno stesso tetto le principali vertenze dell’agro-allevamento. Il secondo aspetto su cui non mi trovo invece d’accordo con Casula è la valutazione di un evento di portata storica per l’economia isolana, cioè le chiudende, in cui si privatizzarono le terre pubbliche per migliorare l’economia agraria, nonché il ruolo assunto dal pastoralismo nel corso della storia isolana. Di che si tratta esattamente?
In Europa, pur con varie sfumature, il culmine dell’età moderna in ambito agrario è consistito nell’adozione delle enclosures, ed in particolare in Inghilterra, la vera e propria regina di un processo di privatizzazione delle terre. In realtà le recinzioni ad uso privato, per quanto limitate, sono sempre esistite, anche se buona parte del vecchio continente in età moderna è rimasto ancorato ad usi “collettivistici” dei terreni pubblici, Sardegna inclusa. Non sono pochi gli autori che hanno visto in queste privatizzazioni, ma soprattutto nell’evoluzione dei processi di gestione della proprietà privata, la nascita del capitalismo (pensiamo agli studi di Max Weber). Per i fisiocratici di epoca illuminista alla Quesnay la terra era la sola vera base della produzione, mentre l’artigianato si limitava a trasformare il prodotto e il commercio a spostarlo, trasferendone la proprietà. In Sardegna è successo qualcosa di estremamente esemplare, perché a fine settecento è esplosa una rivoluzione “liberale”, il cui scopo principale fu quello di rovesciare l’antico sistema feudale ancora in vita e dotare l’isola di un modello di organizzazione sociale al passo con i tempi. Per la verità non sappiamo esattamente quale fosse l’obiettivo finale di questo processo, con tutta probabilità nelle ultime e fallimentari fasi rivoluzionarie, oltre al superamento della tirannia feudale, si pervenne all’idea di instaurare una Repubblica sulla base del modello francese. Mentre di Giovanni Maria Angioy, principale esponente dei moti, sappiamo che fu uno dei primi “imprenditori”, o meglio, sperimentatori della Sardegna nel campo della lavorazione del cotone, con evidenti finalità commerciali. Scomparso Angioy, decenni dopo, fra 1820 e 1823 il re Vittorio Emanuele I° promulga l’Editto delle Chiudende per introdurre formalmente la diffusione della proprietà privata, considerata lo strumento per il miglioramento delle condizioni agrarie e per il superamento del feudalesimo. Una riforma regia dunque aveva realizzato ciò che una rivoluzione non era riuscita a fare. Si deve all’opera del gesuita Francesco Gemelli la spinta ideologica al rinnovamento in senso “capitalistico” della Sardegna. A questo punto sono opportune alcune precisazioni: è vero che tale processo di privatizzazione fu condotto secondo modalità inique, che non tenevano conto della compresenza di un modello feudale e di un diffuso sistema degli ademprivi, nonché delle diverse fazioni di potere dislocate sul territorio. L’assenza di un serio Stato del diritto provocò inevitabilmente soprusi a carico della popolazione più debole, l’accrescimento del potere di quanti già avevano goduto di privilegi durante l’era della suddivisione cetuale, con numerosi casi di povertà e fatti di sangue. A ciò va aggiunta la tradizionale ferocia degli organi sabaudi di repressione del dissenso, su cui nel tempo si è espressa parte della poesia Sarda (sebbene un funzionario come il marchese Yenne denunciò inascoltato le disparità sociali in atto). Da un punto di vista sociale dunque l’epoca delle chiudende è stata ricordata come un’ecatombe. Mentre per decenni, e persino secoli, si è dato scarso peso agli effetti economici prodotti dalle chiudende. Effetti assolutamente positivi, che terminarono con l’adozione del protezionismo italiano nel corso dello stesso secolo. E’ innegabile infatti che l’epoca immediatamente successiva alla diffusione della proprietà privata ha potenziato il commercio e le esportazioni dei Sardi, in quanto la fine dell’anarchia nella gestione fondiaria ha consentito ai proprietari terrieri di razionalizzare la produzione in termini di incremento del profitto, estendendola verso un modello economico di stampo capitalistico. Non a caso la fase di espansione liberale dei commerci Sardi finisce con l’avvento della sinistra storica al governo centrale, negli anni 1876-1896. Benché alcuni punti programmatici di questa compagine politica avessero come obiettivo l’indebolimento dell’imposizione indiretta (ad esempio vi fu l’abolizione della tassa sul macinato), la crisi economica europea di fine ’800 e la contesa dei grandi gruppi economici italiani con la Francia provocò l’adozione di politiche protezionistiche che in Sardegna sortirono effetti devastanti. Fu una delle prime dimostrazioni dell’inconciliabilità degli interessi Sardi con quelli peninsulari. La guerra doganale italo-francese costò alla Sardegna il crollo verticale delle esportazioni accresciute durante la fase liberale: proprio l’agro-allevamento, all’epoca il settore economico trainante, che aveva sviluppato un volume finanziario di 55 milioni di lire annuali, crollò a circa 500.000 lire nell’arco di un triennio. Fu l’epoca in cui nacque il pecorino romano, poiché l’impossibilità di esportare in Francia parte del proprio lavoro aveva obbligato diversi neo-imprenditori Sardi a cedere la propria materia prima all’industria casearia laziale. L’interventismo italiano aveva dunque tagliato le gambe alla nostra imprenditorialità, subordinandola alle politiche industriali di terze realtà economiche, altrimenti concorrenti alla nostra. Lo statalismo italiano, ieri come oggi, è sempre stato la spina nel fianco dello sviluppo economico regionale. Non a caso va considerato che uno dei motivi del malcontento popolare in Sardegna a metà ottocento non fu determinato solamente dagli strascichi dovuti alle enclosures (e durati oltre mezzo secolo, fino alla disputa dei demani di alcuni Comuni ai primi del novecento), ma furono dovuti al fiscalismo italiano: nel 1865 venne adottata la legge 23-4, che introduceva una tassazione onerosa sulle abitazioni, provocando un esproprio ogni 14 nuclei familiari. Fu dunque un contesto sociale nel quale la voracità dei baroni locali unita a quella statale avevano provocato una rivolta come quella nuorese de “su connotu”, dove si auspicava un ritorno agli usi pubblici delle terre. Anche la letteratura filo-sardista non ha mai mancato di elogiare tale fermento di popolo (pensiamo alla teoria comunitarista di Eliseo Spiga e Placido Cherchi), senza considerare invece il ritardo sociale ed il fallimento economico che proprio il pastoralismo diffuso antecedente all’Editto delle Chiudende consentiva di tenere in piedi. L’ideologia sessantottina emersa nell’indipendentismo Sardo del secolo scorso ha poi contribuito a cementare una visione romantica e socialista di questo peculiare passaggio dell’ottocento, senza alcun approccio critico e priva dei necessari strumenti di valutazione economica. Come scritto in varie occasioni su Sa Natzione, l’espansione del fatturato Sardo durante la fase liberale, interrotta dallo statalismo protezionistico italiano, suggerisce tutta la validità di un processo storico che, volenti o nolenti, ci ha consegnato i benefici della proprietà privata. Benefici che probabilmente andrebbero nuovamente approfonditi dalla storiografia ufficiale.
I pastori, sia da Francesco Gemelli che da Giuseppe Manno e da vari osservatori dell’epoca, vennero tenuti ben distanti dai contadini, perché considerati dei conservatori. La storica Lucetta Scaraffia ricorda che “il governo sabaudo si schierò, fin dall’inizio, a favore degli agricoltori, considerati la classe progressiva al confronto con i pastori, che contribuivano grandemente, con le loro esigenze, alla permanenza del regime comunitario delle terre, e che erano appoggiati dai feudatari” (1987). Feudatari che avevano vinto contro la rivoluzione angioysta, e che con l’Editto delle Chiudende avrebbero perso l’introito dei diritti di bestiame.
Nel 2013 i pastori non sono più la categoria professionale principale del nostro prodotto interno lordo, ciò non toglie che possa continuare a sviluppare una fetta importante della nostra ricchezza nazionale Sarda. Ma va considerato che ancora oggi esistono componenti reazionarie, componenti che se in passato si opponevano ad un utilizzo capitalistico delle terre, nel presente campano di assistenzialismo, in una realtà dove farsi pagare un suino morto dal settore pubblico conta più che esportarlo lavorato ad un privato. Si tratta di una spirale che non produce ricchezza, ma la consuma, a spese di tutti i contribuenti. Per questo abbiamo bisogno di formazione, di innovazione, di defiscalizzazione e di superamento del burocratismo italiano ed europeo. Insomma, abbiamo bisogno di riforme sovranitarie, proprio per questo il Movimento Pastori Sardi deve uscire dal ribellismo fine a se stesso e decidere da che parte stare.
Adriano Bomboi.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos
Sicuramente è importante avere un approccio finalmente critico, profondamente critico e scientifico.
Questo commento è ideologico in modo insostenibile. Capisco che ci sia tutta una generazione cresciuta nel mito di un mercato disincarnato rispetto a ogni altra relazione sociale, politica, antropologica e culturale che ci dovremo “tragare” ancora per chissà quanto, esattamente come la nostra cresciuta nel mito del “socialismo” e scappatoie varie, però questo è troppo!
Innanzitutto, Max Weber non è affatto un corifeo del capitalismo ma uno studioso della nascita dello “spirito del capitalismo”, il che è totalmente un’altra cosa. In secondo luogo non mi risulta che Giovanni Maria Angioy fosse favorevole alla privatizzazione e alle chiusure delle terre comuni.
Il furore ideologico della visione mercatista le fa dimenticare che le chiudende ebbero come conseguenza inattesa la frammentazione fondiaria che è ancora oggi una disgrazia totale per la Sardegna. Inoltre, le sfugge il fatto che hanno causato l’inizio del banditismo, che, non essendo un fattore “economico”, probabilmente lei considererà “secondario”. Infine, la creazione non di classi imprenditoriali, ma essenzialmente di rendita.
L’impressione è che mi si imputi solo una visione economicistica della realtà, non è esattamente così.
Non c’è scritto che Weber è stato un capomovimento del capitalismo (anche se nel suo Paese era già un elitista della Germania guglielmina), ma la sua opera, “lo spirito del capitalismo”, inquadrava la genesi del capitalismo con riferimento alla Prussia agraria. Su Angioy, è vero che non risultano suoi chiari riferimenti all’instaurazione della proprietà privata, sappiamo solo che all’epoca il feudalesimo faceva parte di un modello socio-economico che coesisteva alle terre pubbliche, e l’abbattimento di quel modello, se Angioy avesse vinto, avrebbe inevitabilmente messo in discussione quel sistema. Poi è chiaro che, nell’eventualità, non sappiamo che piega avrebbero preso gli eventi e gli stessi protagonisti, a partire da Angioy. Da considerare comunque che le iniziative impenditoriali di Angioy nel cotone mal si sarebbero sposate ad usi collettivistici della terra, proprio a causa dell’assenza di investimenti sull’innovazione che il vecchio sistema comportava.
Nell’articolo poi c’è scritto chiaramente che le avventate chiudende, per come si proposero, produssero anche scontri e iniquità. Non concordo sul fatto che la frammentazione fondiaria abbia causato una disgrazia, al contrario, l’articolo ricorda proprio che l’instaurazione della proprietà privata aiutò le esportazioni (poi bloccate dal protezionismo italiano). Il problema ancora oggi non è certo la frammentazione fondiaria, o meglio, la frammentazione della proprietà, ma della mancata sinergia che i nostri operatori fanno della loro proprietà. Ma questo è un problema che non attiene all’arrivo della proprietà privata in se, ma al livello culturale e della formazione che accompagna questa proprietà… E magari è proprio questo, dopo la fase protezionista, ad aver creato classi di rendita piuttosto che di imprenditori..e che ancora oggi campano di assistenzialismo. Non è un caso che nell’articolo si ricordi come e perché è nato il pecorino romano di latte Sardo…
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