La paura della parola ‘indipendenza’
Mi è capitato spesso di dialogare sull’argomento indipendenza della Sardegna. Oltre alla notevole confusione sull’argomento (indipendenza, autonomia, federalismo), ciò che mi ha sempre colpito è stato il fatto che i miei interlocutori temessero principalmente due cose, che li rendevano ostici nei confronti di questa corrente di pensiero: l’essere rappresentati da personaggi più o meno pittoreschi privi di qualsiasi tipo di competenza in materia e il terrore dell’isolamento, ancor più accentuato di quanto la nostra condizione di isola non faccia.
Per quanto riguarda i primi non gli si può certo dar torto: io stesso ho avuto modo di assistere a dibattiti i cui relatori non erano in grado di rispondere alle più banali domande riguardo a materie come Iva, previdenza sociale o nicchie di mercato sulle quali agire. Ma è altrettanto vero che non possiamo dimenticare, nonostante il secolo o poco meno che ci separa, persone del calibro del capitano Lussu, del professor Egidio Pilia, dell’architetto Antonio Simon Mossa, giusto per citarne alcuni. Persone – e non personaggi – che avevano fatto della tematica “Sardegna” il loro grido di battaglia. Persone preparate, carismatiche, eclettiche. Volgendo lo sguardo verso questi pensatori si accende la speranza che non tutti vogliano godere di evidenza mediatica priva di un progetto serio alle spalle. Basta semplicemente spostare la luce dagli uni agli altri per far passare la paura.
Per quanto riguarda il secondo argomento, rispondo con una semplice storia, che è la storia di tutti i padri e di tutti i figli, di tutte le madri e di tutte le figlie: la storia della famiglia.
Uso questo espediente perché è di facile comprensione, il paragone è diretto e non lascia spazio ad altri tipi di interpretazioni.
“C’era una volta Mario: un bambino piccolo con una famiglia normale che si occupa di lui con tutti i sacrifici che il ruolo genitoriale comporta. Mario dipende in tutto e per tutto dal papà e dalla mamma. Anche quando Mario cresce, sono i genitori a iscriverlo in una scuola elementare che sarà il suo secondo gruppo di apprendimento, oltre a quello delle mura domestiche. Mario cresce, si diploma e si aprono due strade. Mario deve iniziare a scegliere da solo: lavoro o università (o entrambi). Mario compie la prima scelta indipendente sotto l’occhio vigile dei genitori che daranno il loro parere nella scelta. Mario intraprende quindi un percorso piuttosto che un altro, ma le esigenze di Mario sono cambiate: ora ha una fidanzata, progetta un futuro con lei, progetta di andare a vivere da solo.
Quanti si sono trovati nella situazione di Mario? Quindi Mario ha bisogno di lavorare, di sfruttare il suo capitale umano accresciuto durante gli studi, durante l’apprendistato, durante lavori occasionali. Mario ha bisogno di fare per avere risorse proprie per coronare i suoi sogni. Mario investe quindi il suo tempo e le sue energie verso questa direzione e finalmente – con molti sacrifici – va a vivere da solo.
Per farlo, il nostro amico, ha dovuto costruire le basi con fatica: ha dovuto studiare, ha dovuto apprendere, ha dovuto lavorare, commettere errori per imparare da questi. Mario è diventato grande.
Ma ora, nonostante viva da solo, non ha smesso di avere rapporti con i genitori. Ogni tanto va a pranzo da loro, una volta al mese accompagna la madre dal medico, qualche volta ci si riunisce a casa di Mario per cenare insieme. Mario è sicuro che in caso di necessità ci saranno i genitori su cui contare. Ma anche i genitori sono sicuri che, non dipendendo più da loro, qualora loro avessero necessità, ci sarà Mario a prendersi cura di loro.
Questa è la storia normale di una famiglia normale. Non è stato Mario a decidere di attaccarsi un’etichetta con scritto “Sono diventato grande”. Sono stati gli altri a sancirlo. Mario si è solo limitato a lavorare in un’ottica di diventare grande. Diventare indipendente vuol dire non pesare più sul nucleo familiare, vuol dire lasciare risorse per quel viaggio che la mamma e il papà di Mario hanno sempre sognato di fare, vuol dire anche avere la libertà di scegliere senza chiedere il permesso. Essere indipendenti vuol dire essere liberi. Non vuol dire autarchia, rinnegare le proprie origini, non vuol dire scontarsi a muso duro con chi ha avuto – nel bene e nel male – la forza di farci crescere. Non vuol dire stampare banconote con la nostra faccia se poi non abbiamo di che vivere o non sappiamo come farlo. Vuol dire aver creato le basi per vivere senza essere un peso, vuol dire un rapporto fra entità definite che sapranno scambiarsi risorse l’una con l’altra, vuol dire aiutarsi vicendevolmente in caso di bisogno, vuol dire riconoscere e onorare i nostri genitori, siano essi adottivi o naturali.
Per essere indipendenti bisogna seguire la strada di Mario, che è la stessa di tanti. Semplicemente bisogna cambiare prospettiva e capire che la famiglia di Mario non è solo la mamma e il papà, ma è una terra i cui confini sono bagnati dal mare, che si trova a Sud della Corsica e a Nord dell’Africa, una terra con risorse inimmaginabili che se solo venissero sfruttate sapientemente, marciando compatti verso un obiettivo comune, permetterebbero a quel milione e mezzo di figli della Sardegna di essere liberi e indipendenti nelle scelte. Ma tutto questo non sarebbe successo se anziché lavorare sodo Mario avesse sbattuto i piedi per farsi riconoscere il titolo di “Grande e Indipendente”. Lo spazio per i giochi è finito, ora bisogna impegnarsi seriamente, siamo bambini da troppo tempo, affinché, come tutte le storie, il finale sia ‘ e vissero tutti felici e contenti…’ ”
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Redazione SANATZIONE.EU
Ma se poi Mario si rendesse conto che da soli non si va da nessuna parte? che i Sardi non sono gli emiliani o i veneti o piemontesi (Che neanche loro, per quanto assai più efficienti di noi come popolo da soli non se la cavano), che il tempo è passato ed una Nazione Sarda non è possibile ne auspicabile.
Nelle favole Mario vive felice e contento; nella realtà, quella dei grandi e responsabili senza l’Italia come protremmo confrontarci con le grandi nazioni del mondo?, con quali mezzi e risorse? con ambasciatori sparsi nel mondo? con une esercito nostro? forze dell’ordine, statali, politici, pagati come e da chi? con le entrate della nostra industria o agricoltura?
Secondo me se Mario pensasse a rimboccarsi davvero le maniche e a coltivare la maggior parte delle nostre terre (incolte) e passasse meno tempo a bere ichnusa e piangersi addosso forse avrebbe il successo e generato benessere come hanno fatto i veneti di Arborea, che da una palude hanno creato un’impero.
Ringrazio ogni giorno che il buon Dio manda in terra che Garibaldi e Piemontesi siano passati dalle nostre parti.
Amo profondamente la mia terra ma bisogna riconoscerne davvero i limiti profondi e non nascondersi sempre dietro le colpe degli altri, perche se siamo arretrati forse dovremmo guardarci dentro.
Aggiungo che girando l’Italia ho scoperto che sono maggiori le affinità che ci uniscono di quelle che ci dividono (persino linguistiche) come si fa a non riconoscere il legame profondo con Toscana, Lazio o Liguria? ma anche con Emilia (cultura villanovianaa) Sicilia e Campania (persino Wagner riconosceva l’apporto fondamentale dell’Italiano nel logudorese Antico)
Quando mai Roma si può considerare estero? è la nostra vera capitale storica e culturale e pazienza se non è nell’isola, ma in fondo dopo millenni di scambi siamo sicuri che la Sardegna sia confinata alla sola isola ma non sia Sardegna un po tutta L’Italia?
I nostri limiti sono la gente come te, “IO”, e i non-argomenti che portano avanti. Nazioni molto più piccole dell’Italia se la cavano molto meglio, ed in Europa ce ne sono anche decisamente più piccole di una possibile futura Nazione sarda (vedasi Malta, per esempio) con tutti i servizi da te citati. I nostri legami e le nostre affinità con l’Italia sono piccolissime, soprattutto dal punto di vista linguistico. Al pari del resto d’Europa (o cosa dovremmo dire dei rapporti con la Spagna?). I piemontesi hanno distrutto buona parte della Sardegna, sia dal punto di vista economico sia da quello ambientale. E lo stato italiano ha poi proseguito l’opera. I sardi, così come gli “emiliani o veneti”, possono farcela benissimo da soli, e Roma non è la nostra capitale culturale o storica. Non lo è mai stata. Piantala tu di bere birra al bar e considera i dati reali.