Sardegna: una borghesia addestrata alla debolezza
Di Marco Zurru, docente di sociologia economica all’università di Cagliari.
Il Piano di rinascita della Sardegna (nella sua logica fondamentale e nell’intento di introdurre un meccanismo anomalo ma temporaneo di accumulazione (i “prerequisiti del mercato”) era e doveva essere lo strumento fondamentale, il congegno pubblico, per innestare un processo di sviluppo generale dell’intero sistema economico dell’isola.
Esiste però una notevole discrepanza tra le finalità originarie del Piano e la sua attuazione pratica: i fondi della Legge 588 avrebbero dovuto avere carattere straordinario e aggiuntivo; ma hanno finito per essere parzialmente sostitutivi delle altre fonti pubbliche di finanziamento, pur non essendo completamente utilizzati (dei 1800-2000 miliardi previsti inizialmente, ne furono stanziati solo 618 e, infine, spesi soli 197), la destinazione dei fondi registra una difformità tra la distribuzione prevista e quella attuata, con un maggior riguardo – che poi sarebbe diventato percorso unico e privilegiato per la modernizzazione – all’industria piuttosto che al sostegno e alla valorizzazione delle risorse locali (soprattutto quelle agricole e quelle piccole e medie unità industriali della trasformazione); le “zone omogenee”, chiave del possibile intervento diffuso, si restrinsero fino a diventare nuclei, poli industriali di sviluppo nelle sole aree di Cagliari e Sassari (poi arrivò Ottana).
Come scrive stupendamente Lelli, con una “Sardegna spezzata in due”, industria fu infatti, industria chimica e petrolchimica, una delle poche a negare la diffusione dello sviluppo per le caratteristiche che le sono proprie (alta intensità di capitale e speculare bassa intensità di lavoro, difficoltà ad indurre sviluppo “in avanti ed indietro”, secondo la teoria di Hirschmann) e per le conseguenze che di lì a poco sarebbero arrivate dalle dinamiche internazionali, gli shock petroliferi del 1973 e 1975.
Ora, esiste una corposissima letteratura che indaga sul processo di modernizzazione sardo, le sue peculiarità, il ruolo giocato da diversi attori (politici e non), le cause del suo fallimento, etc.. ma a me preme metter in rilievo i tratti generali di questo modello e le sue conseguenze durature.
Se è vero che la classe politica puntò tutto sull’industria chimica, addensata in tre poli, se è vero che il processo di industrializzazione fu esogeno (non sorgendo dalla crescita dei ceti imprenditoriali autonomi); ha avuto una estensione troppo limitata o è stata interrotta alla sua genesi anche dalle crisi internazionali, non ha prodotto le modificazioni attese sul piano della struttura del sistema economico, ha consentito il rigonfiarsi di un terziario precoce, in parte parassitario e in massima parte autoreferenziale e poco attento alla funzione di servizio per l’attività di produzione, ha distrutto le precedenti competenze professionali locali, insomma è stato solo un processo incompiuto, una “industrializzazione mancata”… è anche vero che ciò che non è mancato è la trasformazione di altri ambiti della vita dei cittadini, la sfera dei consumi, lo stile di vita e la struttura delle aspettative.
È proprio grazie allo scambio dei ruoli tra mercato e classe politico amministrativa, al permanere di questo equivoco di fondo nell’assunzione delle distinte funzioni di produzione e regolazione, che si costruisce e permane la forbice tra la “mobilitazione dei consumi e quella della produzione”, come dice Sapelli, per cui la struttura produttiva, la tensione razionale all’efficienza, l’organizzazione e il calcolo razionale delle opportunità tipica dell’imprenditore e del lavoratore, non seguono lo stesso ritmo di cambiamento e la stessa direzione del mondo dei consumi e dello stile di vita che, all’opposto del primo si modernizzano compiutamente.
È proprio la distinzione tra “crescita e sviluppo”, per cui la Sardegna assomiglia – secondo la fortunata metafora di Savona – a quella che si può chiamare una “pentola bucata”: una volta innescato il meccanismo degli incentivi pubblici nella convinzione che il mercato da solo non potesse svolgere un adeguato ruolo di accumulazione per lo sviluppo, la classe politica che gestisce l’importante flusso finanziario verso l’economia, allarga le sue competenze, struttura storicamente e riproduce nei rivoli molteplici degli enti parastatali o pararegionali la sua funzione di mediazione e di arbitro della penetrazione finanziaria, garantisce relativamente alti consumi non corrispondenti alle possibilità concretamente attuabili senza il sostegno pubblico: la società sarda consuma, ma i beni e i servizi, soprattutto i beni, non sono prodotti in loco; le imprese locali non vedono ulteriori spazi al già ristretto mercato e così via, in un circolo vizioso di reciproche convenienze; la classe politica trova la legittimità della propria riproduzione nella capacità di ampliare o mantenere identico il livello quantitativo dei finanziamenti che arrivano dall’esterno (sia Roma o Bruxelles); la società è soddisfatta del livello dei consumi e dello stile di vita conquistato; l’imprenditore sa che gioca quasi sempre in un mercato protetto dal notevole flusso di incentivi pubblici senza l’onere dell’assunzione piena del rischio, senza il peso del disciplinamento, del temperamento dell’impulso irrazionale dell’arricchimento verso un guadagno rinnovato nel tempo.
Allora l’atteggiamento di chi frequenta il mercato può essere duplice: “mera speculazione, atteggiamento di rapina verso le persone e le cose, azione una tantum per arricchirsi”, oppure azione economica che trova la sua fondatezza nell’utilizzo degli incentivi pubblici; una classe di imprenditori per cui l’obiettivo fondamentale consiste nel generare per la propria famiglia un reddito che consenta una vita dignitosa. Ma pur sempre di debolezza si tratta, non è spirito imprenditoriale autentico, desiderio di espandere continuamente l’attività produttiva, di conquistare sempre nuove quote di mercato, di far crescere le dimensioni e il potere della propria impresa; non è un impegno quotidiano per costruire una realtà economica durevole e dunque costretta, in un mondo di competizione, a un continuo cambiamento e innovazione.
Se a ciò, alle molteplici distorsioni di una modernizzazione incompiuta, al peso di una mancata industrializzazione non tanto e non solo nelle strutture produttive, nei capitali fissi e nelle quote di addetti, quanto nella cultura che l’industrializzazione spesso è riuscita a diffondere nel suo ambito di produzione, si somma una scarsità e inadeguatezza del capitale sociale presente nell’isola (ovvero quella struttura delle relazioni tra persone, zuppa di sostanza fiduciaria, che consente alle persone di riconoscersi ed intendersi, di scambiarsi informazioni, di aiutarsi reciprocamente e di cooperare per fini comuni) e una scarsa differenziazione sociale, allora il quadro storico delle debolezze della borghesia imprenditoriale isolana si chiude, rinnovandosi però rispetto al passato, perché trova la spinta fondamentale alla propria azione nell’utilizzo degli incentivi pubblici piuttosto che nell’accumulazione di capitale o nella conquista del mercato.
In questo quadro è la classe politica che ha assunto, nella storica trasformazione del clientelismo dei notabili a clientelismo burocratico o organizzativo, un ruolo dominante: la sua funzione si sposta progressivamente dal versante del governo dello sviluppo e del controllo dell’accumulazione a quello dell’erogazione della spesa. Il meccanismo di legittimazione della classe politica non è legato alla sua capacità progettuale, ma al modo in cui essa distribuisce la spesa pubblica fra le diverse categorie di fruitori. In tal senso si può parlare di “debolezza addestrata” di tutti gli altri ambiti della vita sociale ed economica dell’isola: nel gioco delle reciproche convenienze, dove tutti ci hanno guadagnato qualcosa e non vi sono attori con spinte autentiche per il cambiamento, per la classe politica era necessario e funzionale alla riproduzione del suo spazio di potere acquisito “addestrare” il mercato alla debolezza e la società tutta alla dipendenza dall’incentivo, alla debolezza, che è debolezza di iniziativa, di progettualità e, infine di autonomia.
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Redazione SANATZIONE.EU
[...] (per approfondimenti su questo passaggio rimando all’articolo del sociologo Marco Zurru, “Sardegna, una borghesia addestrata alla debolezza”, Sa Natzione, 15-01-16). In altri termini, non abbiamo solo un problema di istruzione ma anche [...]