Intervista a Carles Puigdemont, leader indipendentista catalano
Lontano dalla Catalogna ormai da due anni, Carles Puigdemont è l’esiliato più famoso d’Europa. Già presidente della comunità catalana e costretto a lasciare Barcellona all’indomani del referendum indipendentista contestato da Madrid, Puigdemont si trova in una situazione particolare: agli occhi di metà dei catalani continua ad essere il legittimo presidente e l’interprete di un sogno, mentre per l’altra metà è semplicemente un eversore.
E mentre si avvicina la conclusione del processo a carico di Oriol Junqueras e degli altri prigionieri politici, lo incontriamo a Lugano dove è intervenuto su invito del Festival Endorfine, dedicato al tema dell’identità.
A cura di Carlo Lottieri (IBL).
Si considera un perseguitato o un condannato?
Sono un uomo libero: un cittadino europeo con tutti i miei diritti, senza un mandato di cattura internazionale. In passato un mandato c’era, ma la Spagna l’ha ritirato. Vivo ufficialmente in Belgio e mi muovo in vari paesi. Posso andare ovunque, eccetto che in Spagna.
Pensa che una Catalogna indipendente sarebbe migliore anche per quanti vogliono restare in Spagna?
Tutti cercano di costruire condizioni più adeguate per i propri cittadini. Anche la Spagna, immagino, vuole costruire condizioni migliori per tutti, ma penso che ci sia bisogno di separazione dei poteri, uguaglianza di fronte alla legge e rispetto dei diritti. Tutto quello che oggi non c’è.
Abbiamo capito che in Spagna non è possibile.
In cosa consiste l’identità catalana? È un problema di lingua, cultura, storia?
Innanzi tutto preferisco parlare di identità “al plurale”. Nel corso della nostra vita riceviamo un gran numero di influenze, che articolano le nostre identità. Quando però ci si mette dinanzi allo specchio, lì si riconosce la propria identità, ma per noi catalani non è un problema di suolo o sangue. Catalano è chi vuole essere catalano. È il risultato di una volontà. Nel nostro mondo l’identità può essere qualcosa che s’impone? Si può costringere qualcuno a essere spagnolo? Anche se qualcuno si sente catalano, oppure al tempo stesso catalano e romeno, come le mie figlie?
In che lingua pensa?
Evidentemente penso in catalano. È normale. Come molti catalani con origini diverse pensano in altra lingua. E d’altra parte le lingue sono momenti culturali e civili, sono indissociabili dalla civiltà.
Lei conosce cinque lingue e molto bene lo spagnolo…
Non solo io: è normale in Catalogna conoscere due o tre lingue. È vero che quanti ci avversano dicono che in Catalogna ci sarebbe una sorta di inimicizia per lo spagnolo, ma non è vero. Nell’ipotesi vi sia solo il 45% dei catalani che vuole andarsene, sarebbe comunque una grande realtà, a cui non si può rispondere con l’esercito e le prigioni.
Lei ha vissuto momenti duri e altri suoi amici situazioni ancora peggiori, poiché sono in prigione. Non era forse il caso essere più moderati?
La nostra battaglia non è mai stata, all’inizio, per l’indipendenza. Abbiamo tentato in tutti i modi di ottenere la salvaguardia delle nostre libertà dentro la Spagna, ma non ci siamo mai riusciti. Abbiamo cercato di lavorare per vivere da catalani in Spagna, proponendo un allargamento della nostra autonomia.
Come siete arrivati alla scelta indipendentista?
In Catalogna avevamo approvato una nuova legge di autonomia, approvata con 120 voti su 135. Fu un compromesso formidabile che arrivò nel 2006 al parlamento spagnolo, dove molto fu cambiato e alla fine però il testo fu approvato: infine l’80% dei catalani approvò il risultato del lavoro parlamentare. Ma la Corte Costituzionale – formata da nominati dalla maggioranza del Partido popular di José Aznar – ha bocciato tutto.
L’indipendentismo nasce tutto da lì.
Perché tanta opposizione di fronte a un compromesso volto a concedere autonomia ai catalani? Perché in Spagna c’è una storia tanto segnata da divisioni che si fa fatica a comporre?
La Spagna ha una lunga storia imperiale e coloniale. Oggi ha perso tutto, ma per lungo tempo ha controllato un’ampia parte del mondo. A Madrid ogni compromesso è visto come una debolezza. In Spagna c’è una vera difficoltà a dialogare, a confrontarsi, a trovare soluzioni di mediazione.
Non vogliamo cambiare paese: vogliamo cambiare epoca. In Spagna tutto è rigido e dogmatico.
Lei ha creduto che l’Europa sostenesse l’ipotesi di una Catalogna libera. Siete delusi? E se la Scozia dovesse votare per entrare in Europa dopo la Brexit, sarebbe trattata come la Catalogna è stata trattata?
Non sono euroscettico: sono euro-esigente. L’idea d’Europa è stata catturata da interessi nazionali che, ad esempio, danno credito a una Spagna che oggi m’impedisce di agire come eurodeputato. E se la Scozia volesse entrare in Europa, sono certo che Bruxelles deciderà di accogliere gli scozzesi, anche se la Spagna si opporrà, temendo un precedente. Il gruppo di eletti catalani al Parlamento europeo ha ricevuto più di un milione di voti, ma la Spagna pretende che io vada a prestare giuramento sulla costituzione spagnola.
Come andrà a finire il processo ai prigionieri politici catalani?
La sola soluzione giusta è l’assoluzione. Il codice penale ha escluso il referendum per l’indipendenza tra i crimini. Vanno assolti e liberati. Non sarà comunque la condanna di 12 persone, di cui 9 in prigione. È un’intera società che sarà condannata. Qui non è in gioco l’indipendenza catalana o l’unità spagnola: qui sono in gioco il diritto e la libertà.
PV, 15-09-19.
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Redazione SANATZIONE.EU
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