Il Sardistan e la cultura della pecora
La notizia ha del grottesco, ma è tutto vero: Coldiretti e Stato Italiano, con l’avvallo del Kirghizistan, porteranno in Sardegna 100 pastori kirghisi con gli obiettivi di: 1) ripopolare le aree interne dell’isola tramite l’allevamento delle pecore, e dunque 2) “salvaguardare le nostre tradizioni”.
Avete capito bene, nella terra della dispersione scolastica record e di un mercato del lavoro specializzato in lavori a basso valore aggiunto, in cui l’emergenza nazionale è la nostra diffusa ignoranza, da cui discende la necessità di far studiare i giovani e diversificare meglio l’economia, Coldiretti e Repubblica Italiana ci portano altre pecore.
Il problema, evidenziamolo, non sono i 100 poveri kirghisi con famiglia al seguito, perché considerando la bassa densità di popolazione della Sardegna per chilometro quadrato, e il suo drammatico calo delle nascite, c’è spazio anche per loro. Il problema è il modello di sviluppo che viene immaginato per la nostra isola, o meglio, sottosviluppo, perché al lato pratico, non solo non affronta concretamente le nostre criticità, ma persiste nel riproporre le condizioni economiche che hanno devastato ogni possibilità di crescita dell’isola.
Certo, alcuni di voi, con un sorrisetto sulle labbra, avranno pensato che in fondo vari indipendentisti sardi non hanno programmi poi così diversi dal progetto di Coldiretti, perché il romanticismo dell’utilizzo prevalentemente rurale dell’isola continua a suggestionare tanti, troppi demagoghi. Soprattutto quegli ambientalisti muniti di uno stipendio pubblico, il cui contatto col mondo delle campagne si limita ai pranzi delle giornate di festività e di convivialità paesana.
La “cultura della pecora”, diventata strutturale nell’isola a causa del combinato disposto di crisi dell’export dovuta al protezionismo italiano dell’Ottocento, e del mare di sussidi alla zootecnia piovuti nella seconda metà del Novecento, hanno spinto migliaia di famiglie sarde ai margini dello sviluppo occidentale. Con redditi che oggi si portano al di sotto di quelli della media riscontrabile in diversi paesi dell’ex URSS.
L’allevamento di bovini (e non solo) è diventato secondario, e soprattutto l’interesse ad investire il proprio tempo e le proprie grame risorse in formazione e altri settori, in particolare ad alto valore aggiunto, che ancora oggi in Sardegna non riguardano la fetta maggioritaria dei nostri redditi.
Tutto ciò ha investito anche lo stesso settore ovino, che per lungo tempo non ha accolto le innovazioni tecniche provenienti d’oltremare, ma si è distinto nella pratica di un modello di utilizzo estensivo delle terre (sovente date alle fiamme, per ripulire svariati ettari da affidare al pascolo). Un modello esercitato da microimprese a conduzione familiare, che spingevano il pastore ad isolarsi per lungo tempo dal mondo civilizzato al fine di ottenere un reddito di minima sussistenza con cui tirare avanti. Ed oggi elogiato da sedicenti intellettuali dediti a crocifiggere solamente casa Savoia, che pure ha la sua quota di responsabilità, ed a spiegarci di cosa dovrebbero occuparsi i sardi.
Si tratta di un modello produttivo ormai largamente superato in favore di aziende agrozootecniche più moderne, capaci di conferire maggiore dignità al lavoro e al reddito del singolo allevatore, ma che in larga parte esprime ancora una costellazione di microimprese esposta alle fluttuazioni del settore. In cui i sussidi pubblici continuano ad avere voce preminente in capitolo, e la cui assenza getterebbe nel baratro migliaia di famiglie sarde. Ben più di quanto avverrebbe in altri paesi, in cui il settore primario è analogamente sussidiato, ma che offrono ai residenti un mercato del lavoro più dinamico con cui garantire una migliore tenuta del tessuto sociale.
In conclusione, sarebbe questa la formula per combattere il fenomeno dello spopolamento?
Non pretendiamo ovviamente che dall’oggi al domani la Sardegna si trasformi nel leader mondiale della produzione di semiconduttori, come avvenuto per Taiwan, quest’ultima inserita in un contesto storico e geopolitico molto diverso dal nostro. Ma forse dovremmo coltivare pure qualche ambizione in più rispetto a quella di insistere in ambiti già abbastanza inflazionati, collezionando sussidi e redditi al limite della sopravvivenza.
Di Adriano Bomboi.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
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