Karim il santo e Gigi Riva lo sportivo

Ad una settimana dalla morte di Karim Aga Khan, in Sardegna abbiamo già letto di tutto, dalla biografia sulle origini del principe all’avventura imprenditoriale della Costa Smeralda. Né sono mancati tanti amici e imprenditori che hanno condiviso la mia posizione sull’opera di una figura così rilevante per la storia della Sardegna contemporanea.

E devo dire, tra le critiche invece, la più ricorrente letta in lungo e in largo per il web rimane la solita, secondo cui: “Sì, l’Aga Khan ha indiscutibilmente prodotto qualcosa di notevole, ma i benefici sono finiti in mano a pochi, mentre i sardi ne hanno raccolto le briciole”.

E allora vediamole queste “briciole” prodotte in una Gallura che prima degli anni Sessanta appariva nella classifica delle aree più povere e arretrate d’Italia. Perché, per i distratti, bisogna ricordare che tra le sue varie imprese l’Aga Khan fondò pure l’aeroporto di Olbia, sopravvissuto alla defunta Alisarda che lanciò lo scalo stesso, e che secondo la stima del CIPNES oggi porta al territorio ricadute pari a 305,6 milioni di euro l’anno.

Ad oggi in Gallura si contano 20.149 imprese attive, ossia migliaia di imprenditori sardi attivi in tutti i settori, così ripartiti secondo i dati del consorzio industriale gallurese:

Servizi: 4.352 imprese.
Commercio: 3.965 imprese.
Costruzioni: 4.029 imprese.
Agricoltura e pesca: 3.155 imprese.
Alloggio e ristorazione: 2.471 imprese.
Attività manifatturiere: 1.324 imprese.
Trasporti: 744 imprese.

Tali imprese generano un’occupazione per 60.426 persone. Numeri di rilievo per un’isola scarsamente competitiva, in cui la Gallura detiene il primato di regione storica più dinamica della Sardegna. Numeri ben noti in Gallura, ma non presso la generale opinione pubblica sarda.

La sola Olbia, che a differenza di Arzachena non si trova nel cuore della Costa Smeralda, porta oggi in dote 7.756 imprese.

Si potrebbe obiettare che presto o tardi un aeroporto ad Olbia sarebbe stato realizzato, magari da parte dello Stato.
Ma senza l’economia smeraldina avrebbe conosciuto tanta fortuna?

Pensiamo allo scalo di Alghero, al centro del Mediterraneo occidentale e proiettato di fronte alla Francia e alla Catalogna, questi, uno dei territori più produttivi di Spagna e d’Europa. I sardi hanno saputo valorizzare tale posizione? E lo Stato italiano ha forse saputo farlo?

E allora perché si parla di “briciole” quando si parla di Costa Smeralda?

Probabilmente perché si confondono diversi elementi tra loro: in primis si confonde la proprietà del Consorzio Costa Smeralda, detenuta dalla Qatar Investment Authority (tramite Smeralda Holding), con la proprietà di ville e alberghi sardi comunque presenti nel territorio e comunque protagonisti dell’economia del territorio.

Oltre a questi due elementi, spesso confusi tra loro, si confonde coi primi pure tutto il restante territorio gallurese che di riflesso supporta e in cambio ottiene benefici dalla relazione con la Costa Smeralda, a partire, come noto, da Olbia e oltre. Si pensi anche alla piccola Budoni, che beneficia del brand “Costa Smeralda”, delle sue infrastrutture dei trasporti, e che conta ben 761 imprese per una popolazione (invernale) di appena 5.541 abitanti, bimbi e anziani inclusi. Per non parlare delle incalcolabili ricadute d’immagine nel settore del turismo sul restante territorio isolano.

Altro determinante elemento di confusione risiede nella distorta idea dell’indotto generato dal turismo nell’area. Perché se è vero che larga parte dell’economia gallurese viene animata dalla stagionalità turistica e necessiterebbe di maggiore diversificazione del tessuto produttivo, è altrettanto vero che grazie a tale dinamismo si sono sviluppati autonomi pezzi di economia nel territorio, dalle produzioni vitivinicole sino ad imprese ICT, che oggi si pongono al secondo posto nel nord Sardegna, dopo Sassari, per numero di imprese attive nel digitale. Solo per citare due settori non certo fondati dall’Aga Khan, sebbene quest’ultimo abbia promosso una visione a 360 gradi del territorio. Si pensi, per esempio, quando lanciò le prestigiose ceramiche del marchio Cerasarda, ancora oggi attivo.

Ulteriore elemento di confusione, quando si parla di turismo e relativo indotto, riguarda la difficoltà di distinguere determinate attività, aperte tutto l’anno, da quelle dedicate alla sola ricettività. Un caso da manuale riguarda il commercio al dettaglio, che nelle voci di composizione del PIL non viene soventemente ascritto alla percentuale del turismo, in quanto non è possibile distinguere, nel fatturato, il cliente locale dal cliente straniero. Ma come ben sappiamo vi sono esercizi commerciali che lavorano per 12 mesi l’anno, unitariamente a professionisti e artigiani, e che incrementano le proprie entrate in coincidenza con i mesi estivi.

Potremmo continuare ed esaminare a fondo il PIL della Gallura, per comprendere meglio l’eredità del principe Karim, ma in questa sede ci preme soprattutto sviluppare un’osservazione sul tratto culturale che porta vari sardi a vedere nel Khan una sorta di “speculatore sulla pelle dei poveri”.

Badate bene, come ci ha ricordato il giornalista Francesco Giorgioni, mentre Khan lavorava allo sviluppo della Costa Smeralda, i giganti della petrolchimica Nino Rovelli ed Angelo Moratti, che non riuscirono ad addentrarsi nella mitica Costa, dovettero ripiegare su altre zone dell’isola. E che fecero per conquistare il consenso dei sardi? Intanto acquistarono il Cagliari calcio e la stampa, presso cui vennero diffuse le celebri gesta sportive di Gigi Riva.

Intendiamoci, se l’investimento nel petrolio fu più che giustificato dal mercato, rispetto a quello fallimentare della chimica, arrivata al tramonto dell’epoca fordista, ai redditi medio-bassi dei sardi venne almeno garantito il contentino dell’eroe calcistico con cui digerire i fumi delle ciminiere. Eroe in buona fede e uomo di grande spessore, ma indubbiamente, strumento inconsapevole per evidenti finalità di pacificazione sociale.

E così, mentre la Gallura oggi rappresenta l’unica regione sarda in crescita, secondo un modello maggiormente ecosostenibile, chi ha puntato sul calcio, secondo una classica mentalità sudamericana, si trova oggi a fare i conti con un territorio economicamente depresso, assistito, con un calo demografico in corso ed un’emigrazione galoppante.

L’Aga Khan e Rovelli rappresentarono due distinti modelli di investimento economico, entrambi comprensibili per l’epoca e il contesto in cui si svilupparono, ma che non possono essere interpretati secondo le deformanti interpretazioni ideologiche appartenenti a vecchie logiche di stampo marxista, o peggio, nazionalsocialista, secondo cui ogni investitore esterno rappresenterebbe un “colonizzatore venuto a rapinare le risorse locali e civilizzarne gli indigeni”.
Khan aveva una visione di lungo termine che abbracciava l’intera comunità, figlia della dimensione liberale di matrice britannica in cui era cresciuto, e dell’ala riformista del pensiero sciita derivante dalle sue origini confessionali, ben ricordate qualche anno fa da un articolo di Gianraimondo Farina.

In loco purtroppo abbiamo un sovranismo di matrice socialista che oggi permea ancora larga parte dell’indipendentismo sardo, diffidente verso ogni facoltoso investitore esterno, incapace di valorizzare l’apporto culturale, le risorse, e le contaminazioni utili al territorio per arricchire quest’ultimo.
Una paura primordiale dovuta probabilmente ai secoli di dominazioni straniere dell’isola, che spesso infarciscono la retorica del nazionalismo sardo, nonostante questi si reputi pienamente “progressista”, a patto che i migranti siano esclusivamente nullatenenti.

Immaginate di calare le note critiche all’Aga Khan in una realtà come quella di Singapore, una delle maggiori piazze finanziarie globali, in cui la popolazione locale è composta per ben il 42% da stranieri, attirati in loco dal dinamismo economico.

Ecco, come sarebbe stata etichettata questa componente di popolazione da parte degli abitanti originari secondo la ristretta mentalità sarda che abbiamo citato?

Queste donne e questi uomini sarebbero stati visti come colonizzatori o come persone che offrono un contributo attivo allo sviluppo culturale ed economico locale?

Quando sapremo rispondere con serietà a questa domanda, allora, e solo allora, sapremo in quali termini lavorare per riformare il nostro Statuto regionale di Autonomia. Col fine di conquistare più diritti, ma anche e soprattutto più responsabilità, con cui gestire in modo meno assistenziale e più oculato la capacità di sviluppare e attirare sani investimenti nell’isola, riducendo le monoculture e i settori a basso valore aggiunto.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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