Sequestri: una replica a Marco Zurru, cantore dell’infallibilità dello Stato
Ringrazio Marco Zurru, sociologo presso l’università di Cagliari, perché la sua colorita replica sul mio articolo relativo al trentennale di Osposidda (sul sequestro Caggiari) dimostra che in Sardegna le nuove tecnologie ci danno modo di effettuare riflessioni che meritano di essere portate all’attenzione del grande pubblico.
Una premessa: U.R.N. Sardinnya, il gruppo indipendentista per il quale scrivo, pur non essendo un partito ma un semplice collettivo politico-culturale, è uno dei pochi organismi esistenti nell’isola ad ospitare alcuni membri delle forze armate, fra cui anche alcuni figli di agenti che hanno operato ad Orgosolo negli anni d’oro del banditismo sardo. Di conseguenza, prima di annaspare in avventate ricostruzioni, è bene considerare che il sottoscritto ha una propria cognizione di causa attorno alla serietà del problema, sul know-how dello Stato in materia, sulle regole di ingaggio delle forze dell’ordine e sul rispetto che al comparto della pubblica sicurezza nessuno di noi ha mai fatto venire meno.
Eppure confesso di non aver trovato grandi novità nella replica di Zurru, che in buona sostanza ci ricorda quanto alla metà del secolo scorso l’abigeato superasse di gran lunga l’escalation di sequestri che sarebbe seguita in ragione dei mutamenti socio-economici occorsi nell’isola. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’oggetto del mio articolo, che si riferiva all’opacità dell’azione dello Stato nella gestione del sequestro Caggiari. Secondo l’approssimata valutazione di Zurru il mio articolo tenderebbe ad ignorare le vittime (i sequestrati), orientandosi politicamente verso una critica nei confronti delle istituzioni, come se ciò fosse un tabù. Nel leggere Zurru se ne ricava l’impressione che lo Stato abbia sempre ben operato, che non abbia mai ecceduto nell’uso della forza, e che, tutto sommato, anche le ragioni del malessere sociale che hanno condotto all’evoluzione del banditismo sardo non abbiano nulla a che vedere con l’operato delle nostre istituzioni (variamente articolato fra dirigismo, repressione, paternalismo e fiscalismo). Il pensiero di Zurru si ascrive dunque in quel vasto calderone di accademici, eredi della religione hobbesiana, che hanno ascritto allo Stato il primato dell’infallibilità un tempo associata al monarca di diritto divino (a Deo rege, a rege lex, “Da Dio al re, dal re la legge”). E che dopo la rivoluzione francese si è traslata nello Stato contemporaneo ma anche nella figura del Pontefice (Pastor Aeternus, Concilio Vaticano I°). Secondo questa religione civile lo Stato rappresenterebbe sempre il “bene supremo” per antonomasia, e le sue scelte non andrebbero messe in discussione. Pena, nel caso di specie, quella di riabilitare la figura dei banditi rispetto al legalismo formale delle istituzioni. Un pensiero che in tempi in cui l’Italia viene condannata per tortura da Strasburgo sui sequestri del G8 2001 alla scuola Diaz fa piuttosto sorridere.
Ma gli italiani, come noto, sono brava gente. A Zurru non importa riflettere se ad Osposidda lo Stato abbia abusato della propria forza, né – peggio ancora – se vi sia stata una regia esecutiva che possa aver spinto in tal senso.
Altro aspetto gravemente ignorato da Zurru riguarda il doppiopesismo dello Stato nei confronti dei sequestrati. Sono ormai di pubblico dominio le notizie sugli interventi politici, tramite azioni di intelligence, per liberare determinati ostaggi ignorandone altri. Nel 1998 Francesco Cossiga ammise di essersi adoperato per la liberazione della famiglia inglese Schild, rapita in Gallura nel 1979, dietro pressioni di Margaret Thatcher. Il tutto approvato dalle competenti autorità giudiziarie, mentre altri sequestrati sardi, privi di cognomi blasonati, svanivano, come cibo per vermi, nei più reconditi anfratti dei monti barbaricini.
Del resto, considerati i sequestri capitati all’estero a cittadini italiani, in cui gli ostaggi sono stati liberati dopo una indubbia consegna di denaro ai rapitori (mentre in patria ciò non è permesso, salvo quando lo decida l’opportunismo politico), ne deduciamo che la Repubblica Italiana non opera secondo criteri di imparzialità ed eguaglianza, ma secondo canoni di discrezionalità dettati dal refrain politico e mediatico del momento. Ecco perché la visione in bianco e nero di Zurru non contempla una realtà in cui – purtroppo per le vittime – esistono sia quelle di serie A che quelle di serie B.
E allora diciamoci la verità: lo Stato, come ogni artificio umano, è soggetto alla fallibilità, ed i cittadini-contribuenti hanno il diritto di contestarne tanto gli abusi della coercizione pubblica (come potrebbe essere accaduto ad Osposidda), quanto la parzialità che spesso ne anima l’azione. Tacere questa verità non significa esporsi ad una giustificazione del crimine, affermarla invece significa comprendere che il crimine si determina pure negli apparati dello Stato. Ragion per cui nacque anche il cosiddetto “Diritto Internazionale”.
Tutto il resto sono sproloqui ideologici anti-indipendentistici, probabilmente dettati da un conservatorismo italiano di sinistra (quindi “culturalmente superiore”), non abituato ad indipendentisti in grado di dar loro del filo da torcere.
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