Referendum: il no di Atene cambierà realmente l’Europa?

Di Adriano Bomboi.

L’art. 75 della Costituzione Italiana vieta i referendum su leggi tributarie e di bilancio, nonché sull’autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Lo scopo dei padri costituenti era quello di rafforzare l’istituto della rappresentanza sottraendo alla democrazia diretta delle materie per le quali non si riteneva idoneo ascoltare l’opinione dei cittadini, in quanto questi avrebbero potuto inciampare nel populismo, assumendo decisioni lesive per la sopravvivenza stessa dello Stato.
In buona sostanza, in Italia non sarebbe stato possibile tenere un referendum sulla falsariga di quello greco, in cui il governo Tsipras ha ritenuto opportuno chiedere ai cittadini se dare il proprio placet alle richieste dei creditori europei.
Difficile valutare con esattezza se ciò oggi costituisca un bene o un male. Il ragionamento si presta ad un discorso alquanto articolato:

Con il 77,29% di sezioni scrutinate, la vittoria del no in Grecia si è immediatamente attestata sul  61,58% dei consensi. Il risultato non indebolirà comunque l’economia tedesca, principale animatrice del contenzioso con Atene, ma la sua politica: di fronte ad un voto democratico la Merkel potrebbe abbandonare la linea dell’intransigenza e con ogni probabilità la Francia spingerà su Berlino per allentare ulteriormente le maglie del debito greco, obiettivo a cui guarderebbe Atene per chiudere temporaneamente la partita. In alternativa si andrà verso un default della Grecia pilotato dalla BCE, con l’ausilio del Quantitative easing, al fine di scongiurare un potenziale “contagio” dell’insolvenza nei confronti degli Stati più esposti. Gli effetti concreti a danno della popolazione si inizierebbero ad avvertire comunque con una crisi di liquidità da parte degli istituti di credito, su cui l’Europa potrebbe intervenire attraverso un piano straordinario di aiuti per scongiurare l’irreperibilità dei beni di prima necessità. Ma come si è arrivati a questa situazione?

Qualunque percorso venga intrapreso, il governo Tsipras ne uscirà indubbiamente rafforzato. La mossa di demandare la soluzione del problema alla democrazia rappresenta comunque un trionfo del populismo: in linea col precedente caso islandese, i greci hanno votato sui soldi altrui. Il Paese che ha dato i natali alla democrazia proviene da decenni di sperperi della spesa pubblica a cui gli scorsi governi ellenici hanno risposto contraendo e incrementando il volume del debito con l’estero. Al contempo, creditori ben consapevoli delle difficoltà dell’economia greca, hanno persistito nel versare fiumi di denaro che il debitore non avrebbe comunque pagato, se non dilazionando ulteriori aiuti nel tempo. Si è così alimentata una tossicodipendenza del vizio greco che non ha avuto l’obiettivo di curare il paziente ma di allungarne la terapia, con la finalità di accrescere le finanze dei creditori a danno dei debitori. La strategia si è manifestata nell’imposizione di un modello radicale di austerity che ha avuto l’unico risultato di inibire la ripresa dei consumi, cronicizzando il problema. Diversi cittadini comuni si sono pertanto posti il seguente quesito: “perché prestare così tanto denaro con interessi ad uno Stato che non ha un’economia in grado di farvi fronte?”.
Per trovare la risposta a questa domanda bisogna tornare nella culla della maggiore crisi economica internazionale dell’ultimo decennio, gli Stati Uniti. Dopo il crollo di Lehman Brothers, la FED, banca centrale americana, ed il governo federale, nel tentativo di scongiurare un crack di dimensioni maggiori, incrementarono il proprio interventismo economico salvando il sistema bancario tramite aiuti pubblici. Questa scelta consegnò al mondo del credito e della finanza internazionale un messaggio chiarissimo: il default si può evitare, e per farlo si può usare il denaro dei contribuenti. Ecco perché, anche in Europa, che il debitore paghi, che paghi in ritardo, o che non paghi, diventa un problema relativo, poiché comunque i governi e la BCE interverranno per sanare eventuali buchi di bilancio, anche con misure straordinarie. L’assenza dell’ipotesi del fallimento annienta il libero mercato e spalanca le porte alla socializzazione del rischio.
Per farvi comprendere meglio la dinamica, astraendola da una concezione macroeconomica, potreste immaginare un ente locale prossimo al fallimento ma che viene costantemente salvato con soldi pubblici, nonostante i suoi servizi siano puntualmente pessimi.

Malgrado diversi economisti e commentatori glamour addebitino al “neoliberismo” la causa di quanto avvenuto, il fenomeno rappresenta l’ennesimo prodotto del dirigismo statale, dove organi non democratici speculano su Paesi assistenziali e populisti in un rapporto di mutua dipendenza che avvantaggia i primi lasciando scarso ossigeno ai secondi.
La crisi consegna nuova autorevolezza agli economisti ed agli intellettuali politici di scuola neo-austriaca, che da decenni sostengono il superamento delle banche centrali ed un ritorno al gold standard. Infatti, secondo tale orientamento economico, la moneta, qualora slegata dal calcolo economico derivante da un libero mercato e regolata secondo principi politici (come FED e BCE), si presterebbe alla costante e ciclica espansione di bolle sempre più drammatiche (ved. Paul, 2009). Delle crisi in cui gli effetti concreti finirebbero sempre e comunque a carico della popolazione: sia dei contribuenti che si vedono sottrarre dal fisco denaro che verrà usato per tamponare la crisi finanziaria. Sia dei cittadini, sempre più impoveriti, i cui governi non avranno accettato un vero default – qualora incapaci di riformare il proprio Stato – ma persisteranno nell’alimentare l’artificioso circolo vizioso sopra descritto, rimandando ai posteri il problema.

Non a caso va ricordato che anche l’avvio della crisi americana fu dovuto ad una politica centrale di tassi d’interesse vantaggiosi, che spinse il sistema creditizio ad offrire mutui facili pure a coloro che non potevano permettersi, ad esempio, una compravendita immobiliare. Dal 2000 al 2004 la FED di Alan Greenspan stimolò una crescita della liquidità portando i tassi dal 7 all’1%. Successivamente, col rialzo dei tassi, chi aveva contratto mutui subprime fu quindi impossibilitato a pagare il debito contratto.

Ecco perché, se una vittoria greca del si avrebbe tenuto l’attuale dirigismo europeo, il no potrebbe perpetuarlo lo stesso ma in una versione più morbida nei confronti dei debitori ellenici (e dei prossimi questuanti che busseranno alla porta di Bruxelles).

- Scritto per Cagliari Globalist, gruppo Il Sole 24 ore.

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