Nasce ‘Repùblica’, nuovo movimento indipendentista. I pro e i contro

Nasce “Repùblica”, nuova formazione indipendentista sarda.

Dopo anni di declino diversi indipendentisti provenienti da varie esperienze, tra cui IRS e ProgReS, oltre ad alcune new entry, tentano di razionalizzare la propria proposta politica lanciando una nuova sigla.

Iniziativa indubbiamente lodevole rispetto all’immobilismo degli ultimi tempi, che espone un programma con vari punti interessanti da portare avanti, ed altri tuttavia che nascono già vecchi e potenzialmente rischiosi per la già fragile economia sarda.

Limitiamoci a commentare gli argomenti principali.
Scrivono i “Repùblicani”:

«Lavoreremo per conquistare sempre nuovi poteri e nuove possibilità di decisione per il Governo e le Amministrazioni della Sardegna. In questo senso immaginiamo un nuovo modello economico che prevede che la Sardegna percepisca tutte le imposte e abbia la facoltà di decidere come investirle; vogliamo la creazione di un Assessorato dell’Economia e delle Finanze; la devoluzione delle competenze in materia di contratti di lavoro, di sicurezza sociale e pensioni; la devoluzione delle competenze in materia di sicurezza pubblica, polizia giudiziaria e fiscale, così come di controllo di porti e aeroporti; l’implementazione delle funzioni del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale, verso la costituzione di un Corpo di Polizia sardo alle dipendenze della RAS

Finalmente si torna a parlare di devoluzione di competenze in materie chiave. Una linea apparentemente impraticabile, dato l’assetto centralista dello Stato sigillato dalla Costituzione italiana, ma che necessita di essere messo in discussione. Soprattutto in tempi in cui la politica italiana, fatta salva la sedicente “autonomia differenziata”, non pare affatto propensa a riportare in auge il tema del federalismo.

Ottima pure l’idea di «organizzare un sistema di federalismo interno volto alla migliore gestione dei territori, rispondente alle esigenze e alle aspettative delle popolazioni delle regioni storiche della nazione sarda», argomento promosso in lungo e in largo da anni anche in questo spazio.

Non mancano altri passaggi interessanti che meritano approfondimento: «scommettiamo sulla creazione e la crescita di altri grandi settori con enormi potenzialità come quello tecnologico; vogliamo creare lavoro, guarire l’emorragia emigratoria dei nostri giovani
Inoltre: «Ci impegniamo pubblicamente a lavorare per il recupero dell’uso sociale della Lingua sarda e di una sua completa e definitiva normalizzazione ortografica. Per l’adozione di tutte le misure necessarie al raggiungimento della parità legale del Sardo e dell’Italiano

Apprezzabile anche la linea di riqualificare la spesa pubblica sopprimendo enti inutili, e soprattutto la volontà di lavorare per una crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo, oltre che nella nostra istruzione. Basi fondamentali per ogni sviluppo che si rispetti.

Tutto condivisibile dunque, ma come rilanciare l’economia utilizzando gli ipotetici e futuri nuovi poteri istituzionali/amministrativi per arrivare agli intenti sperati?

E qui arrivano le note dolenti, una legnata dietro l’altra.
Scrivono i “Repùblicani”:

«Opposizione alle controriforme del mercato del lavoro

Quali sarebbero esattamente le “controriforme”?
Gli studi sul nostro mercato del lavoro confermano che, per esempio, grazie alla flessibilità del Jobs act introdotto negli anni scorsi si è ridotto il precariato ed è aumentata l’occupazione.
In base ai dati ISTAT, nel 2016 si registravano 22,83 milioni di occupati, mentre due anni dopo sono saliti a 23,3 milioni.
Già allora uno studio esposto da Tito Boeri e Pietro Garibaldi ha osservato che nelle imprese sopra i 15 dipendenti le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate del 50% rispetto alle aziende più piccole, Sardegna inclusa.
Per chi volesse approfondire invito a visionare il seguente articolo:
Effetto Jobs act: cosa dicono i dati”. Di T. Boeri e P. Garibaldi – La Voce, 27-03-2018.
Per maggiori dettagli, ecco lo studio INPS: inps.it/docallegatiNP/Mig/InpsComunica/WorkInps_Papers/10_WorkINPS_Papers_19febbraio_2018.pdf

I “Repùblicani” purtroppo rincarano la dose e propongono un «recupero pieno della contrattazione collettiva come principio base.»

La contrattazione collettiva centralizzata invece rappresenta uno dei maggiori problemi del nostro mercato del lavoro, che non permette neppure un idoneo allineamento dei salari ai diversi livelli di produttività e costo della vita nel paese, perpetuando il divario nord-sud. Bisognerebbe semmai decentralizzare la contrattazione nel mercato del lavoro anche in Sardegna, venendo così incontro ad imprese e lavoratori, che porterebbe ad una crescita dei salari. Portandoci in linea con gli standard dei paesi più evoluti.
Per approfondimenti sul tema segnalo il seguente articolo:
Salari differenziati, se copiassimo la Germania vantaggi per tutti”. Di I. Lagrosa (Università Bocconi), Mondoeconomico, 20-02-2023.
Nonché il mio testo: “Problemi economico-finanziari della Sardegna”, Condaghes 2019.

Più che fresche “idee repubblicane made in Sardinia”, in appena due righe, abbiamo scoperto che nel loro programma ci sono idee che derivano dalla cultura politica della sinistra radicale italiana di qualche decennio fa. Perché oggigiorno sono idee vecchie anche per qualsiasi programma riformista di sinistra e laburista, tanto in Italia quanto all’estero.
Ed essendo due argomenti di rilevante peso economico-sociale, si invalidano tutti i buoni presupposti letti sinora.

Scorrendo ulteriormente il programma troviamo altri aspetti ideologici potenzialmente dannosi. Per esempio, secondo i “Repùblicani” bisognerebbe istituire «un salario minimo garantito per assicurare condizioni di vita dignitose ai lavoratori dipendenti

O meglio, se sul salario minimo possiamo pure concordare, per venire incontro alle difficoltà dei lavoratori salariati, rimane il dubbio sul livello entro il quale dovrebbe attestarsi. Poiché essendo ben lontani dal contesto tedesco e svedese, in un territorio a bassa produttività come il nostro, potrebbe gravare pesantemente su un tessuto di microimprese come quello sardo. Ma immaginiamo pure di trovare un compromesso ideale per la tenuta del nostro sistema economico. I “Repùblicani” propongono di aggravare la già pessima situazione con l’idea di: «Ridurre la settimana lavorativa a 35 ore senza riduzione di salario

Anche in questo caso nessun cenno al livello di produttività delle nostre imprese, che finirebbero per subire un incremento dei costi in abbinamento ad un’ulteriore perdita di competitività. Perché non si comprende neppure a quale settore sarebbe rivolta tale idea.
Al terziario? E se si, al terziario avanzato? Se ne avessimo uno robusto avrebbe forse senso, ma a queste latitudini abbiamo più camerieri che programmatori. Non a caso, se consideriamo l’alta presenza di imprese a basso valore aggiunto dell’isola, queste ultime sarebbero costrette ad incrementare i costi della manodopera, o ad aumentare il numero di assunzioni in nero, senza tutele, per sopperire all’ammanco di ore lavorate per ogni singolo dipendente. Oppure la misura spingerebbe varie imprese direttamente verso il fallimento.

L’impressione dunque è che dentro i “Repùblicani” si copino idee progressiste provenienti da contesti molto diversi dal nostro, emulando la stessa retorica di una parte della sinistra italiana, e cercando così di calare dall’alto soluzioni non propriamente idonee alle caratteristiche attuali del nostro mercato del lavoro.
Anche in questo caso per approfondimenti rimando al mio testo edito per Condaghes nel 2019.

Per concludere la disamina, vorrei infine segnalarvi due passaggi del programma della nuova sigla indipendentista, in uno si afferma: «Stabilire la pensione ordinaria ai 65 anni e parziale ai 61
Nell’altro: «La Sardegna, da più di 70 anni, consegna allo Stato attraverso i tributi molti milioni di euro in più rispetto a quanti lo Stato ne investa in Sardegna o ne trasferisca alla Amministrazioni sarde

Riassumendo, in linea con il populismo italiano di destra a trazione leghista, gli amici indipendentisti vorrebbero ridurre l’età pensionistica nel paese che ha già una delle più alte spese previdenziali del pianeta. Per di più in una terra che conta già oltre un terzo dei sardi in pensione, con le relative ricadute economiche negative nell’aggravio del nostro tasso di popolazione inattiva nel mercato del lavoro.
Tanti indipendentisti inoltre non considerano che lo Stato italiano da decenni versa ai sardi fior fior di pensioni, ben oltre l’ammontare dei bassi tributi versati dai sardi.
La mitologia dello “Stato che ci frega” deriva in parte da un vecchio studio della Fondazione Agnelli, in cui si evidenziava come lo Stato trattenesse più tributi di quelli consentiti dal nostro Statuto autonomo (problema concreto ma risolto in anni recenti). E in parte dalla maldestra idea che tutte le pensioni sarde sarebbero il prodotto di una previdenza contributiva per il lavoro di una vita portato avanti dal singolo pensionato.
In realtà una vasta percentuale delle pensioni sarde ha carattere retributivo, in quanto una mole ingente di sardi non ha mai versato un adeguato numero di contributi previdenziali nel corso degli anni. Pertanto, tale spesa (che bisogna definire assistenziale), lungi dall’essere una sorta di “debito” dello Stato verso i sardi, rappresenta un autentico costo a carico dell’erario italiano.

In conclusione, il movimento “Repùblica” parte con tanti buoni presupposti di base, ma ad un attento approfondimento necessita ancora di far evolvere drasticamente la propria proposta politica, per superare idee nate già vecchie in partenza e palesemente derivate dalla cultura della sinistra italiana, che di “sardo” hanno poco e niente. E che peggiorerebbero i già onerosi ritardi causati dallo Stato italiano e dalla scarsa formazione del nostro capitale umano.

Di Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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