Conoscere Sa Die de sa Sardigna: Francesco Ignazio Mannu e l’Inno – Di Francesco Casula

Il magistrato e il poeta cantore delle rivolte antifeudali in Sardegna alla fine del ‘700 (1758-1839).

Nasce a Ozieri (Sassari) il 18 Maggio del 1758 da Michele e Margherita. Frequenta l’Università di Sassari ed il 6 Febbraio del 1783 consegue la laurea in leggi e subito dopo si trasferisce a Cagliari per esercitarvi la professione di procuratore legale.
Intellettuale proveniente dalla piccola nobiltà rurale, membro attivo dello stamento militare, è seguace di Giovanni Maria Angioy ed ha un ruolo importante nel triennio rivoluzionario e antifeudale (1793-96).
E’ ricordato nella storia e dunque deve la sua fama all’Inno Su patriottu sardu a sos feudatarios, un volumetto di 12 pagine. L’edizione critica del testo fu curata da Raffa Garzia ed edito nel volume Il canto di una rivoluzione, Appunti di storia e storia letteraria sarda (Tipografia dell’Unione sarda, Cagliari 1809).
L’Inno fu tradotto in inglese da John Ware Tendale (The Island of Sardinia, London, 1849) e in francese da Gaston Buillier (L’Ile de Sardaigne, Paris 1865), in prosa italiana da Enrico Costa e dal già ricordato Garzia. In versi italiani fu tradotto dal poeta Sebastiano Satta. Più recentemente sono state curate due edizioni critiche da parte degli storici Luciano Carta (con Su patriota sardu a sos feudatarios, Editore CUEC-Centro di studi filologici sardi, Cagliari 2002) e Luciano Marroccu (con “Procurad’ ‘e moderare” AMD edizioni, Cagliari 1996).
“La tradizione -scrive Luciano Carta- vuole che l’inno sia stato stampato clandestinamente in Corsica nel pieno della lotta antifeudale. R. Garzia, codificando una consolidata tradizione ottocentesca, volle ribattezzare l’inno come la «Marsigliese sarda», attribuendogli significati e valenze di carattere democratico e giacobino storicamente improbabili e sotto il profilo dell’analisi testuale del tutto improponibili. In realtà l’inno del M., come i più recenti studi hanno messo in luce, è il più noto manifesto politico della fase moderata del movimento antifeudale, avviata con le aperture del governo viceregio e dei feudatari del Capo meridionale nell’estate del 1795, al fine di sanare gli abusi di cui si era reso storicamente responsabile il sistema feudale.
L’inno veicola una visione moderatamente riformatrice della società e del Regno di Sardegna di fine Settecento, sebbene i toni di alcune strofe denotino una convinta e robusta denuncia dei mali indotti dal sistema feudale nella società sarda. Ripercorre, inoltre, con toni duramente polemici, le principali vicende del «triennio rivoluzionario», denunciando il tradimento della «sarda rivoluzione» da parte di coloro che, per interesse personale e di parte, ne avevano abbandonato l’originaria ispirazione autonomistica e vanificato quel progetto di riforma politica e sociale, da realizzare all’interno dell’istituto monarchico, del tutto alieno da propositi di carattere democratico e giacobino.
Questo sostanziale moderatismo potrebbe spiegare il motivo per cui, dopo il fallimento del moto antifeudale, il M., indicato tra i più accesi fautori dell’Angioy e in quanto tale proposto per il confino, non fu né perseguitato né epurato. Anche dopo l’arrivo in Sardegna nel 1799 del sovrano sabaudo, cacciato da Torino dalle armate napoleoniche, il M. poté continuare indisturbato il suo servizio nei ruoli dell’alta magistratura. Giudice effettivo della sala civile della Reale Udienza nel 1807, nel settembre 1818 fu nominato giudice del Magistrato del consolato, tribunale incaricato di dirimere le controversie sul commercio. Parsimonioso e filantropo, alla sua morte, avvenuta a Cagliari il 19 ag. 1839, il M. lasciò un cospicuo patrimonio di 40.000 scudi all’ospedale cittadino”. [Francesco Ignazio Mannu, Luciano Carta, in Dizionario bibliografico degli Italiani, Ed. Istituto dell’Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 2007, pag.132].

Presentazione del testo.
L’Inno è un lungo e complesso carme in sardo logudorese, di 47 ottave in ottonari,- modellato sui gosos, inni di origine spagnola che nella tradizione religiosa locale venivano cantati in onore dei santi- per un totale di 376 versi in cui ripercorre le vicende di un momento cruciale della storia della Sardegna contemporanea: il periodo del triennio rivoluzionario sardo (1793-96) -che la ricerca storica più recente indica come l’alba della Sardegna contemporanea- anni drammatici, di profondissimi sconvolgimenti e di grandi speranze in cui il popolo sardo -oppresso da un intollerabile regime feudale- riuscì a esprimere in modo corale le sue rivendicazioni di autonomia politica e di riforma sociale.
L’inno è legato dunque ai momenti più fervidi della rivolta dei vassalli contro i feudatari, quando alla fine del secolo XVIII i Sardi, acquistata coscienza del loro valore contro i Francesi del generale Troguet, vollero spezzare il giogo dei baroni e dei Piemontesi e reclamarono per sé libertà e giustizia. Esso è dunque imbevuto del diritto naturale della “bona filosofia” illuminista e delle letture degli enciclopedisti francesi: Diderot, Montesquieu, Rousseau.
Si tratta dunque di un terribile giambo contro i feudatari, anzi, più che un giambo il suo doveva essere un canto di marcia, una vibrata e ardente requisitoria contro le prepotenze feudali, animata dall’inizio alla fine da un’ira violenta. L’andamento della strofa è concitato e commosso, il contrasto fra l’ozio beato dei feudatari e la vita misera dei vassalli è rappresentata con crudezza: l’inno però, più oratorio che canto, raramente viene trasfigurato in una superiore visione poetica. Comunque dopo tanta arcadia è una voce schietta, maschia e vigorosa e come tale sarà destinato ad avere una enorme risonanza, tanto da diventare il simbolo stesso della sollevazione contro i baroni e da essere declamata dai vassalli in rivolta a guisa di “Marsigliese sarda”.
L’inno –che sotto il profilo linguistico, si articola su due livelli, uno alto e uno popolare- non è sardo solo nella lingua, ma anche nel repertorio concettuale e simbolico che utilizza. Infatti, anche se, come abbiamo visto, rappresenta un esplicito veicolo di cultura democratica d’oltralpe, esso è un primo esempio di discorso altrui divenuto autenticamente discorso sardo.

Giudizi critici.
Scrive Raimondo Carta Raspi: “vigoroso e incisivo, dalle strofe tambureggianti, quasi a scuotere la sonnolenza dei Sardi, tutto il canto è un’incalzante e sferzante satira contro i feudatari e i Piemontesi e un incitamento perché la rivolta in atto divampi come un immenso incendio: <cando si tenet su bentu/est prezisu bentulare> (quando il vento è propizio/è il momento di ventilare [il grano]”.
Mentre Girolamo Sotgiu sostiene: ”L’inno di Francesco Ignazio Mannu, stupendo canto di emancipazione, è ancora più esplicito nel denunciare la rapina del regime feudale e anche più incisivo nell’esortare alla lotta contro di esso”.

ANALIZZARE:
Nelle prime tre ottave abbiamo s’isterrida (distesa) ovvero l’introduzione e la proposizione dell’argomento con un concitato monito e una minaccia scandita duramente, in ottonari sentenziosi e sostenuti: cercate di moderare, o baroni, la vostra tirannia o sarà per voi la fine: Il popolo non ne può delle sofferenze e delle angherie dovute alla vostra prepotenza e la guerra è ormai dichiarata. Ascoltate la mia voce, ammonisce l’autore, o tutto andrà a fuoco: l’età buia della legge “inimiga” (nemica) –chiarissima l’allusione all’ordinamento feudale- deve finire.
Lo pretende e lo insegna, la “buona filosofia”, ovvero l’Illuminismo.
L’Inno è composto di versi ottonari: non molto usati nella poesia popolare sarda. Il primo e l’ultimo verso non rimano, gli altri sono legati da rime interne a-bb-cc-dd-e. C’è una curiosità ritmica: l’ultimo verso – ha solo due rime in –ia- ed in –are- che si alternano senza limite fisso, nelle diverse strofe.
La lingua utilizzata è il sardo nella variante logudorese: esso per la sua armoniosità intrinseca ma anche per una certa vigoria dovuta al frequente succedersi di consonanti sonore, è particolarmente adatto ad esprimere sentimenti vivi e concitati.
Si può rimproverare la tessitura troppo vasta e non adatta a un inno di guerra e ancor di più il tono eccessivamente oratorio ma non gli si può negare di essere una voce ironica e sarcastica, schietta e commossa, dopo tanta arcadia e bamboleggiamenti idilliaci.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’:
-Inni patriottici.
La tradizione letteraria e musicale della Sardegna non offre molti canti patriottici. Dello stesso Inno sardo Cunservet deus su re, (Conservi Dio il re) che ricalca almeno nel titolo l’inno nazionale inglese, composto da Vittorio Angius nel 1844 e musicato dal maestro Giovanni Gonella, in voga tra i soldati dei reggimenti sardi fino alla Prima Guerra, oggi si conserva appena il ricordo.
A un solo componimento i Sardi, almeno a partire dalla fine del XVIII secolo, hanno riconosciuto dignità di canto patriottico, attraverso il quale esprimere il sentimento di ribellione contro le ingiustizie e per una società più equa: è Su patriota (o patriottu) sardu a sos feudatarios di Mannu.
Sono stati numerosi gli artisti –sardi e non- che lo hanno musicato, inciso e cantato: da ricordare fra gli altri i Cori di Orgosolo e di Nuoro; i cantanti Peppino Marotto, Anna Maria Puggioni e Maria Carta, Anna Loddo e Franco Madau; i Gruppi dei Cordas e Cannas, dei Tazenda ma anche il gruppo siciliano Kunsertu e il canzoniere del Lazio. Nel 2000 i tenores di Neoneli incidevano un CD “Barones” cui partecipano noti personaggi del panorama musicale italiano che interpreteranno 17 delle 47 strofe dell’Inno: da Francesco Baccini a Angelo Branduardi, da Francesco Guccini a Luciano Ligabue e Elio delle Storie Tese.

(Lezione tenuta dal prof. Casula a Quartu, 14-12-11, Truncare sas cadenas).

Su patriota sardu contra a sos feudatarios.

1.Procurade de moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe’ in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
ln su pobulu a mancare

2.Mirade ch’est azzendende
Contra de ‘ois su fogu;
Mirade chi non est giogu
Chi sa cosa andat a veras;
Mirade chi sas aeras
Minettana temporale;
Zente cunsizzada male,
Iscultade sa ‘oghe mia.

3.No apprettedas s ‘isprone
A su poveru ronzinu,
Si no in mesu caminu
S’arrempellat appuradu;
Mizzi ch’est tantu cansadu
E non ‘nde podet piusu;
Finalmente a fundu in susu
S’imbastu ‘nd ‘hat a bettare

4.Su pobulu chi in profundu
Letargu fit sepultadu
Finalmente despertadu
S’abbizzat ch ‘est in cadena,
Ch’istat suffrende sa pena
De s’indolenzia antiga:
Feudu, legge inimiga
A bona filosofia!

5.Che ch’esseret una ‘inza,
Una tanca, unu cunzadu,
Sas biddas hana donadu
De regalu o a bendissione;
Comente unu cumone
De bestias berveghinas
Sos homines et feminas
Han bendidu cun sa cria

6.Pro pagas mizzas de liras,
Et tale ‘olta pro niente,
Isclavas eternamente
Tantas pobulassiones,
E migliares de persones
Servint a unu tirannu.
Poveru genere humanu,
Povera sarda zenia!

7.Deghe o doighi familias
S’han partidu sa Sardigna,
De una manera indigna
Si ‘nde sunt fattas pobiddas;
Divididu s’hant sas biddas
In sa zega antichidade,
Però sa presente edade
Lu pensat rimediare.

8.Naschet su Sardu soggettu
A milli cumandamentos,
Tributos e pagamentos
Chi faghet a su segnore,
In bestiamene et laore
In dinari e in natura,
E pagat pro sa pastura,
E pagat pro laorare.

9.Meda innantis de sos feudos
Esistiana sas biddas,
Et issas fìni pobiddas
De saltos e biddattones.
Comente a bois, Barones,
Sa cosa anzena est passada?
Cuddu chi bos l’hat dada
Non bos la podiat dare.

10.No est mai presumibile
Chi voluntariamente
Hapat sa povera zente
Zedidu a tale derettu;
Su titulu ergo est infettu
De s’infeudassione
E i sas biddas reione
Tenene de l’impugnare

11.Sas tassas in su prinzipiu
Esigiazis limitadas,
Dae pustis sunt istadas
Ogni die aumentende,
A misura chi creschende
Sezis andados in fastu,
A misura chi in su gastu
Lassezis s ‘economia.

12.Non bos balet allegare
S’antiga possessione
Cun minettas de presone,
Cun gastigos e cun penas,
Cun zippos e cun cadenas
Sos poveros ignorantes
Derettos esorbitantes
Hazis forzadu a pagare

13.A su mancu s ‘impleerent
In mantenner sa giustissia
Castighende sa malissia
De sos malos de su logu,
A su mancu disaogu
Sos bonos poterant tenner,
Poterant andare e benner
Seguros per i sa via.

14.Est cussu s’unicu fine
De dogni tassa e derettu,
Chi seguru et chi chiettu
Sutta sa legge si vivat,
De custu fine nos privat
Su barone pro avarissia;
In sos gastos de giustissia
Faghet solu economia

15.Su primu chi si presentat
Si nominat offissiale,
Fattat bene o fattat male
Bastat non chirchet salariu,
Procuradore o notariu,
O camareri o lacaju,
Siat murru o siat baju,
Est bonu pro guvernare.

16.Bastat chi prestet sa manu
Pro fagher crescher sa rènta,
Bastat si fetat cuntenta
Sa buscia de su Segnore;
Chi aggiuet a su fattore
A crobare prontamente
Missu o attera zente
Chi l’iscat esecutare

17.A boltas, de podatariu,
Guvernat su cappellanu,
Sas biddas cun una manu
Cun s’attera sa dispensa.
Feudatariu, pensa, pensa
Chi sos vassallos non tenes
Solu pro crescher sos benes,
Solu pro los iscorzare.

18.Su patrimoniu, sa vida
Pro difender su villanu
Cun sas armas a sa manu
Cheret ch ‘istet notte e die;
Già ch ‘hat a esser gasie
Proite tantu tributu?
Si non si nd’hat haer fruttu
Est locura su pagare.

19.Si su barone non faghet
S’obbligassione sua,
Vassallu, de parte tua
A nudda ses obbligadu;
Sos derettos ch’hat crobadu
In tantos annos passados
Sunu dinaris furados
Et ti los devet torrare.

20.Sas rèntas servini solu
Pro mantenner cicisbeas,
Pro carrozzas e livreas,
Pro inutiles servissios,
Pro alimentare sos vissios,
Pro giogare a sa bassetta,
E pro poder sa braghetta
Fora de domo isfogare,

21.Pro poder tenner piattos
Bindighi e vinti in sa mesa,
Pro chi potat sa marchesa
Sempre andare in portantina;
S’iscarpa istrinta mischina,
La faghet andare a toppu,
Sas pedras punghene troppu
E non podet camminare

22.Pro una littera solu
Su vassallu, poverinu,
Faghet dies de caminu
A pe’, senz ‘esser pagadu,
Mesu iscurzu e ispozzadu
Espostu a dogni inclemenzia;
Eppuru tenet passienzia,
Eppuru devet cagliare.

23.Ecco comente s ‘impleat
De su poveru su suore!
Comente, Eternu Segnore,
Suffrides tanta ingiustissia?
Bois, Divina Giustissia,
Remediade sas cosas,
Bois, da ispinas, rosas
Solu podides bogare.

24.Trabagliade trabagliade
O poveros de sas biddas,
Pro mantenner in zittade
Tantos caddos de istalla,
A bois lassant sa palla
Issos regoglint su ranu,
Et pensant sero e manzanu
Solamente a ingrassare.

25.Su segnor feudatariu
A sas undighi si pesat.
Dae su lettu a sa mesa,
Dae sa mesa a su giogu.
Et pustis pro disaogu
Andat a cicisbeare;
Giompidu a iscurigare
Teatru, ballu, allegria

26.Cantu differentemente,
su vassallu passat s’ora!
Innantis de s’aurora
Già est bessidu in campagna;
Bentu o nie in sa muntagna.
In su paris sole ardente.
Oh! poverittu, comente
Lu podet agguantare!.

27.Cun su zappu e cun s’aradu
Penat tota sa die,
A ora de mesudie
Si zibat de solu pane.
Mezzus paschidu est su cane
De su Barone, in zittade,
S’est de cudda calidade
Chi in falda solent portare.

28.Timende chi si reforment
Disordines tantu mannos,
Cun manizzos et ingannos
Sas Cortes hant impedidu;
Et isperdere hant cherfidu
Sos patrizios pius zelantes,
Nende chi fint petulantes
Et contra sa monarchia

29.Ai caddos ch’in favore
De sa patria han peroradu,
Chi s’ispada hana ogadu
Pro sa causa comune,
O a su tuju sa fune
Cheriant ponner meschinos.
O comente a Giacobinos
Los cheriant massacrare.

30.Però su chelu hat difesu
Sos bonos visibilmente,
Aterradu b’at su potente,
Ei s’umile esaltadu,
Deus, chi s’est declaradu
Pro custa patria nostra,
De ogn’insidia bostra
Isse nos hat a salvare.

31.Perfidu feudatariu!
Pro interesse privadu
Protettore declaradu
Ses de su piemontesu.
Cun issu ti fist intesu
Cun meda fazilidade:
Isse papada in zittade
E tue in bidda a porfia.

32.Fit pro sos piemontesos
Sa Sardigna una cuccagna;
Che in sas Indias s ‘Ispagna
Issos s ‘incontrant inoghe;
Nos alzaiat sa oghe
Finzas unu camareri,
O plebeu o cavaglieri
Si deviat umiliare…

33.Issos dae custa terra
Ch’hana ogadu milliones,
Beniant senza calzones
E si nd’handaiant gallonados;
Mai ch’esserent istados
Chi ch’hana postu su fogu
Malaittu cuddu logu
Chi criat tale zenìa

34.Issos inoghe incontràna
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fint sos impleos,
Pro issos sint sos onores,
Sas dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
Et a su sardu restada
Una fune a s’impiccare!

35.Sos disculos nos mandàna
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione
Cun impleu e cun patente;
In Moscovia tale zente
Si mandat a sa Siberia
Pro chi morzat de miseria,
Però non pro guvernare

36.Intantu in s’insula nostra
Numerosa gioventude
De talentu e de virtude
Ozïosa la lassàna:
E si algun ‘nd’impleàna
Chircaiant su pius tontu
Pro chi lis torrat a contu
cun zente zega a trattare.

37.Si in impleos subalternos
Algunu sardu avanzàna,
In regalos non bastada
Su mesu de su salariu,
Mandare fit nezessariu
Caddos de casta a Turinu
Et bonas cassas de binu,
Cannonau e malvasia.

38.De dare a su piemontesu
Sa prata nostra ei s’oro
Est de su guvernu insoro
Massimu fundamentale,
Su regnu andet bene o male
No l’is importat niente,
Antis creent incumbeniente
Lassarelu prosperare.

39.S’isula hat arruinadu
Custa razza de bastardos;
Sos privilegios sardos
Issos nos hana leadu,
Dae sos archivios furadu
Nos hana sas mezzus pezzas
Et che iscritturas bezzas
Las hana fattas bruiare.

40.De custu flagellu, in parte,
Deus nos hat liberadu.
Sos sardos ch’hana ogadu
Custu dannosu inimigu,
E tue li ses amigu,
O sardu barone indignu,
E tue ses in s’impignu
De ‘nde lu fagher torrare

41.Pro custu, iscaradamente,
Preigas pro su Piemonte,
Falzu chi portas in fronte
Su marcu de traitore;
Fizzas tuas tant’honore
Faghent a su furisteri,
Mancari siat basseri
Bastat chi sardu no siat.

42.S’accas ‘andas a Turinu
Inie basare dès
A su minustru sos pes
E a atter su… già m ‘intendes;
Pro ottenner su chi pretendes
Bendes sa patria tua,
E procuras forsis a cua
Sos sardos iscreditare

43.Sa buscia lassas inie,
Una rughitta in pettorra
Una giae in su traseri;
Et in premiu ‘nde torras
Pro fagher su quarteri
Sa domo has arruinadu,
E titolu has acchistadu
De traitore e ispia.

44.Su chelu non faghet sempre
Sa malissia triunfare,
Su mundu det reformare
Sas cosas ch ‘andana male,
Su sistema feudale
Non podet durare meda?
Custu bender pro moneda
Sos pobulos det sessare.

45.S’homine chi s ‘impostura
Haiat già degradadu
Paret chi a s’antigu gradu
Alzare cherfat de nou;
Paret chi su rangu sou
Pretendat s’humanidade;
Sardos mios, ischidade
E sighide custa ghia.

46.Custa, pobulos, est s’hora
D’estirpare sos abusos!
A terra sos malos usos,
A terra su dispotismu;
Gherra, gherra a s’egoismu,
Et gherra a sos oppressores;
Custos tirannos minores
Est prezisu humiliare.

47.Si no, chalchi die a mossu
Bo ‘nde segade’ su didu.
Como ch’est su filu ordidu
A bois toccat a tèssere,
Mizzi chi poi det essere
Tardu s ‘arrepentimentu;
Cando si tenet su bentu
Est prezisu bentulare.

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Redazione SANATZIONE.EU

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