Dossier: Da Bruxelles uno studio sul processo di integrazione per i nuovi Stati UE – I.V.
Spot Centre Maurits Coppieters, include Sardegna – ideasforeurope.eu (EN-Wmv – 2011).
Casi come quello scozzese (dove si terrà un referendum sull’indipendenza), o quello catalano, hanno inevitabilmente spinto diversi osservatori internazionali a valutare quali percorsi e quali strumenti giuridici dovrebbe adottare un nuovo Stato qualora il suo territorio e la sua popolazione intendano proseguire la loro partnership con l’Unione Europea.
Uno dei più autorevoli studi in materia è stato compiuto fra il 2010 e il 2011 e riguarda il lavoro del Centro “Maurits Coppieters”, una Fondazione che richiama il nome dello storico portavoce del Parlamento regionalista fiammingo, sostenuto dall’European Free Alliance, importante formazione politica dei popoli europei.
Il documento, di stretta attualità, semplice ed organico allo stesso tempo, ha come oggetto il tema dell’allargamento interno dell’UE. Nella fattispecie, in questa sede ci interessano i criteri di adesione di un nuovo Stato conformemente al Diritto europeo.
Su questo aspetto il testo presenta due binari di indagine: il primo riguarda le possibili interconnessioni tra il diritto dei nuovi eventuali Stati membri e il diritto UE; il secondo riguarda quella serie di trattati, in itinere, che dovrebbero aprire e accompagnare il percorso di automazione di un territorio fino ad interfacciarsi completamente col diritto europeo.
Alla base di questo secondo filone di indagine si è individuata come fonte giuridica di riferimento il lavoro svolto dalla Commissione del Diritto Internazionale (un organo sussidiario permanente delle Nazioni Unite) che si tradusse nella Convenzione di Vienna del 1978.
La Convenzione si richiamava alla teoria politica internazionale della successione degli Stati, cioè al trasferimento dei diritti da uno Stato preesistente ad uno nuovo, in relazione al riconoscimento che terzi Stati dovranno apportare alla nuova entità nel momento in cui questa eserciterà la sua influenza sulla popolazione e sul territorio (o una parte di esso) in precedenza assoggettati alle vecchie istituzioni. La teoria si ispira alla diplomazia del XIX° secolo e, stando a quanto si osserva oggigiorno nella dialettica politica anglosassone, è perfettamente integrabile ai principi del moderno indipendentismo. Ad esempio il premier nazionalista scozzese Alex Salmond ha recentemente ricordato a Londra che alla base di un moderno federalismo non vi può essere un popolo sottoposto a tutela di un terzo per la prosecuzione del proprio benessere, ma il benessere e la possibilità di realizzare trattati deve essere determinata dalla parità di condizioni e di diritti esercitabili da ogni singolo popolo. La sovranità insomma può solo essere delegata, ma non sottoposta a coercitiva tutela di terzi.
Un esempio di “successione statuale” si è determinato nel 1991, con il crollo dell’ex U.R.S.S. e la contestuale formazione della C.S.I. (di fatto sottoposta alle linee della Federazione Russa). Svariate ex Repubbliche sovietiche dell’est Europa ripudieranno la C.S.I. e, da indipendenti, aderiranno a tappe alterne all’UE, un processo tutt’ora in corso anche per quanto riguarda il percorso di adesione alla moneta unica.
Parallelamente, la Federazione Russa è succeduta all’ex Stato Sovietico nell’esercizio dei diritti sul rispettivo popolo e territorio (e ha conservato il seggio ONU permanente conseguito da Mosca al termine del secondo conflitto mondiale). O pensiamo all’assorbimento effettuato tra il 1989 ed il 1990 dalla ex DDR da parte della Repubblica Federale Tedesca, che portò alla rinascita della Germania unita.
Interessante a questo proposito sarà osservare il percorso del Kosovo, attuale protettorato ONU indipendente dalla Serbia, nell’ambito del processo di allargamento UE.
La Convenzione di Vienna, e i successivi trattati sviluppati per inquadrare i diritti di successione sui beni e i debiti pubblici (1983) e i rapporti internazionali tra Stati (1986), non è mai seriamente decollata per una serie di ragioni: in primo luogo per la non retroattività delle sue disposizioni nel tempo; in secondo luogo per la mancata ratifica da parte di vari Stati-nazione (per ragioni evidentemente politiche ed economiche che avrebbero determinato potenziali cavilli di favore nei riguardi delle minoranze nazionali presenti sotto la propria giurisdizione).
La Convenzione definisce diversi casi di emancipazione statuale, si chiamano di “nuova indipendenza” tutti quei casi in cui un nuovo Stato-nazione nasce per separazione da uno Stato che continua ad esistere. Ad esempio, qualora la Catalogna divenisse uno Stato indipendente rispetto a quello Spagnolo, si parlerebbe non di secessione ma di “nuova indipendenza”. La denominazione trae origine dai processi di decolonizzazione avvenuti nel corso del ’900.
Si ha invece separatismo/secessione quando la porzione del territorio di uno Stato – non nazione – si rende indipendente creando un nuovo Stato (come il caso eritreo rispetto all’Etiopia del 1993).
Come dovrebbe aderire dunque uno Stato di “nuova indipendenza” della vecchia Europa alle istituzioni sovranazionali di Bruxelles? Che orientamento dovrebbe seguire un territorio ed un popolo, già parte dell’UE, che mediante un nuovo Stato vorrebbero proseguire la loro permanenza nell’Unione Europea? Secondo il Centro Studi della Fondazione “Maurits Coppieters”, si seguirebbero semplicemente i cosiddetti “Copenaghen criteria”, vale a dire le disposizioni già seguite e ampiamente collaudate con successo da vari Stati (ex U.R.S.S.) dell’est Europa nel loro processo di adesione all’UE.
I “Copenaghen criteria” rappresentano un pacchetto di direttive che, lo Stato, candidato all’adesione UE, dovrà seguire per poter effettuare la fusione comunitaria. Essi includono l’allineamento agli indirizzi economici, democratici e legislativi UE. In materia di principi democratici, l’aderente dovrà ovviamente rispettare i valori dei diritti umani ed il rispetto di tutte le minoranze, mentre sul piano economico, lo Stato di diritto, non necessariamente all’atto dell’adesione e qualora intenda continuare a far parte dell’Euro (se trattasi di nuovo Stato nato da Stato già aderente all’Eurozona), dovrà allinearsi alle disposizioni dei “Convergence criteria” (o “Maastricht criteria”) per l’omogeneizzazione dei parametri che consentiranno l’adozione della moneta unica. Tra essi abbiamo il controllo del tasso inflazionistico, il controllo del debito pubblico, il disavanzo annuale e i tassi di interesse sul lungo termine. E l’European Exchange Rate Mechanism, sul tasso di cambio (evolutosi nel corso dell’ultimo decennio).
Per quanto riguarda i confini del diritto tra il singolo Stato e il diritto UE, sono stati già classificati dal Trattato di Lisbona (stesura 2007), entrato in vigore nel 2009.
Sul tema economico, che ci riguarda meno in funzione della natura giuridica dello studio in oggetto, è comunque opportuno ricordare le parole dell’economista Alberto Alesina, docente ad Harvard ed editorialista del Sole 24 Ore, il 18 giugno 2010, a seguito del caso elettorale Belga, nella divisione tra Valloni e Fiamminghi, affermava:
“Il costo di una separazione sarebbe quello di creare Paesi troppo piccoli. Ma in un’Unione Europea e in un mondo sempre più integrato economicamente i Paesi piccoli possono prosperare tanto bene quanto quelli grandi. Il loro mercato è il mondo e i loro confini politici non pongono particolari barriere economiche. Tutto ciò vale ancor di più visto che il Belgio fa già parte di una unione monetaria e i due Paesi che nascerebbero ne rimarrebbero parte. Insomma, in un certo senso possiamo pensare ai pro e ai contro di una separazione come un confronto tra i benefici della dimensione del Paese e i costi di eterogeneità. Va notato che i primi, cioè i benefici della dimensione, si riducono quando un Paese fa parte di un’area d’integrazione economica. Ecco che quindi i costi economici per un Belgio diviso sono bassi”.
In quanto indipendentisti riformisti, possiamo inoltre affermare quanto sia illogico dare credibilità, a condizioni correnti, ai detrattori della possibilità indipendentista argomentandola con una presunta insufficienza economica (del tutto opinabile). Lo scopo del riformismo indipendentista è proprio quello di superare le condizioni socio-economiche attuali – inclusa, quindi, la formazione e la competenza del tessuto sociale – per migliorarle gradualmente nel tempo. Ragion per cui tergiversare sulle condizioni presenti è un esercizio retorico e privo di qualsiasi rigore metodologico.
Piuttosto, sappiamo che le maggiori agenzie di rating oggigiorno partono dalla constatazione che l’esercizio della fiscalità autonoma (prima che di una sovranità monetaria), sono un elemento di positività con cui inquadrare la potenziale tenuta di una comunità autonoma inserita nell’ambito di uno Stato dotato di un alto debito pubblico (vedere articolo sul rating di Fitch alla Sardegna).
In sintesi, se la relazione della Fondazione contigua all’European Free Alliance ritiene sufficienti le misure già contemplate dal Diritto internazionale per consentire il riconoscimento e l’affermazione di nuovi Stati UE, indirettamente, mostra altresì tutti gli evidenti limiti politici riconducibili ai singoli e vecchi Stati-nazione che fin’ora hanno trattato con estrema ritrosia questa delicata tematica.
Documenti:
- Relazione riassuntiva dello studio della Fondazione “Maurits Coppieters” (2011): PDF – EN
- Testo della Convenzione di Vienna (1978): PDF – EN
- Trattato di Maastricht (1992, CVCE.EU): PDF – EN
- Trattato di Lisbona (2007): PDF – IT
Di Bomboi Adriano.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi
Complimenti Adriano, interessantissimo articolo!
Un articolo illuminante, pragmatico che illusta i molteplici aspetti concreti del neo indipendentismo, scevro da qualsiasi ideologismo asfittico e pretamente teorico. Un indipendentismo attuale, aggrappato alla realtà che viviamo. Grazie