Aperitivo a Bruxelles: Il Nazionalismo Fiammingo e la Costituente in Sardegna

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Da Bruxelles alla Sardegna? Esattamente. E’ stata vittoria alle ultime elezioni in Belgio per i Nazionalisti Fiamminghi dell’N-VA.
Di chi si tratta?
La “New Flemish Alliance” è una formazione politica indipendentista moderata riconducibile ad un centro-destra. Ben diversa dai crismi dei radicali indipendentisti del Vlaams Belang.
L’N-VA, membro del partito Europeo dell’EFA/ALE, è uno dei massimi rappresentanti contemporanei (assieme allo Scottish National Party di centro-sinistra) e di altri grandi partiti nazionalisti repubblicani occidentali, della cosìddetta generazione del “civic nationalism”, la forma più avanzata di quel moderno nazionalismo – di matrice indipendentista – inclusivo e solidale che si batte per una conquista graduale della sovranità e del progresso economico a favore della Nazione rappresentata, a seconda del contesto.
Chiamato anche liberal-nazionalismo: aperto al multiculturalismo ed avverso alla xenofobia, esso trae origine dal pensiero filosofico di celebri intellettuali del passato, come Ernest Renan e John Stuart Mill. Ma fu il “Contratto sociale” di Jean-Jacques Rousseau a garantire la diffusione di quegli elementi che trovarono la prima attuazione pratica nella dichiarazione di indipendenza della colonie Americane dal Regno Unito nel 1776, sotto la guida di George Washington.
In Sardegna, alcune varianti di questo nazionalismo sono rappresentate dal Partito Sardo d’Azione e dal movimento IRS (quest’ultimo erroneamente definito “non-nazionalista”).

In Belgio, il giorno dopo le ultime politiche di giugno, i seggi ottenuti alla Camera dall’N-VA si attestavano a 27 (pari ad 1.135.617 voti), contro i 26 dei socialisti francofoni. Mentre al Senato la Nieuw-Vlaamse Alliantie conquistava 9 seggi (pari ad 1.268.894 voti). Uno Stato, il Belgio, sempre più diviso tra nord e sud, tra Fiamminghi e Valloni, due comunità – linguisticamente, mediaticamente, economicamente e politicamente distinte – in cui una Monarchia Costituzionale ed una struttura istituzionale federale non riescono più ad assicurare omogeneità alla popolazione.
Avremo un nuovo caso Cecoslovacco nel cuore dell’Europa? Staremo a vedere. Nel frattempo, il leader dell’N-VA Bart De Wever ha escluso ipotesi separatiste di stampo “rivoluzionario”, ma ha piuttosto assicurato collaborazione e gradualità nella risoluzione dei problemi più immediati, tra cui quello economico (di cui comunque, è il sud francofono ad avvertirne il peso, a carico della parte Fiamminga).
Ma è proprio la capitale Bruxelles a rappresentare il nuovo paradigma indipendentista che si presenta agli occhi dei vecchi stati tradizionali. Bruxelles infatti non è solo il centro politico del Belgio ma anche il cuore di parecchie istituzioni Europee. Da Bruxelles potrebbe partire quell’insperata reazione a catena, interna allo spazio UE, capace di dare una nuova primavera alle minoranze linguistiche senza stato che da anni si battono per il riconoscimento dei loro diritti e la relativa conquista della sovranità. L’Europa delle piccole patrie sembra dunque essere l’unica soluzione ad un problema che, se certamente non si concretizzerà a breve, ha oggi manifestato i primi sintomi di un fenomeno in lenta ma costante ascesa.
Si determineranno diversi casi ovviamente e con diversi livelli di sovranità entro i quali queste comunità potranno politicamente far valere le loro legittime ambizioni.
Alcune di queste, non necessariamente verteranno sulla piena indipendenza, ma si stabilizzeranno verosimilmente sul piano del “point break”, ovvero in quel “punto di rottura” permanente che garantisce loro prosperità economica in cambio della permanenza nello stato contestato. Taiwan nei confronti della Cina continentale è un esempio pratico di questa dinamica: un territorio marginale rispetto alla restante geografia politica dello stato che minaccia secessione in cambio di garanzie e/o libertà economiche superiori, le quali, diversamente, non avrebbe. Nei fatti la pressione continua della periferia sul centro non si traduce (almeno a condizioni correnti) in indipendenza. Pensiamo anche al Québec nei suoi rapporti col Canada.
In Italia è il Sud-Tirolo a replicare (in un contesto geostrategico completamente diverso) questo fenomeno. Per esso, è infatti preferibile coltivare una forte autonomia in seno allo Stato Italiano che non divenire una qualsiasi periferia (ad esempio) dell’Austria a seguito di fusione.
Questo nel caso trattasi di piccola entità geografica linguisticamente vicina ad uno stato affine più forte (in entrambi i casi citati infatti la lingua tedesca ne sarebbe il veicolo unificatore per eccellenza).
Nonostante tutto, le crisi economiche che ormai attraversano pesantemente anche i classici stati-nazione potrebbero indurre ad un generale cambio di rotta nei confronti delle loro stesse minoranze, spingendole spontaneamente verso una consensuale ed indolore separazione.
La Sardegna si pone su un piano anch’esso diverso, in ragione del suo bilinguismo a favore dell’Italia e della relativa centralizzazione mediatica, economica e sociale, è verosimile che qualsiasi passaggio verso una ipotetica piena indipendenza debba preventivamente passare per un periodo di natura confederale in seno alla Repubblica Italiana.
Eppure, i divorzi completi non sarebbero per forza di cose un male: l’economista Alberto Alesina, docente ad Harvard ed editorialista del Sole 24 Ore, il 18 giugno scorso a seguito del caso elettorale Belga affermava:

“Il costo di una separazione sarebbe quello di creare paesi troppo piccoli. Ma in un’Unione Europea e in un mondo sempre più integrato economicamente i paesi piccoli possono prosperare tanto bene quanto quelli grandi. Il loro mercato è il mondo e i loro confini politici non pongono particolari barriere economiche.
Tutto ciò vale ancor di più visto che il Belgio fa già parte di una unione monetaria e i due paesi che nascerebbero ne rimarrebbero parte.
Insomma, in un certo senso possiamo pensare ai pro e ai contro di una separazione come un confronto tra i benefici della dimensione del paese e i costi di eterogeneità. Va notato che i primi, cioè i benefici della dimensione, si riducono quando un paese fa parte di un’area d’integrazione economica. Ecco che quindi i costi economici per un Belgio diviso sono bassi”.

Ma in rapporto alla Sardegna, questi sono scenari a cui guardare con cautela.
Perché la grande sfida del presente e dell’immediato futuro per la nostra isola si gioca nella riforma del sistema politico e del sistema istituzionale, quindi nella natura dei rapporti tra la periferia ed il centro (Roma). Si tratta della riforma dello Statuto Sardo, che sebbene caldeggiata da tanti, non sembra ancora concretizzarsi in proposte oggettive che sappiano tradursi in un costruttivo dibattito.
Rimangono presenti quella del Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga (PDF); quella del “Comitato per la Nuova Carta De Logu”, presentata in Senato dall’On. Piergiorgio Massidda del PDL (PDF); infine quella presentata dal Senatore Antonello Cabras del PD (PDF). In quest’ultima risulta addirittura assente il “Popolo Sardo”, riconosciuto invece nel corrente statuto del 1948.
I tentativi per avviare un processo di Consulta e di Assemblea Costituente per la riscrittura della Carta non sono mancati, come quello di Renato Soru, bocciato dalla Corte Costituzionale, e la proposta dei Riformatori Sardi per indire l’assemblea – oltre a quella dei Sardisti stessi, che comunque il prossimo settembre discuteranno una mozione sui rapporti dell’isola con lo Stato e sull’indipendenza.
Purtroppo, il pressapochismo diffuso nell’approccio al tema delle grandi riforme è indice della mediocrità della classe dirigente al governo ed all’opposizione in Sardegna.
Le colpe sono evidentemente riconducibili a due fattori essenziali: il primo è chiaramente la centralizzazione politica, sociale ed economica a cui è sottoposta l’isola nei confronti di Roma.
Le segreterie politiche dei maggiori partiti italiani sono storicamente dipendenti dall’esterno e non sono in grado di concepire il loro stesso territorio come il “punto alfa” da cui ne consegue la loro azione amministrativa. Al contrario, essa viene dunque dissolta nella comune amministrazione, demandando ai posteri l’utilità di riforme a cui nessuno li ha mai educati alla comprensione. Inoltre guardano a Roma come punto di approdo per lo sviluppo di un prestigio personale il quale, tuttavia, data la complessità della Repubblica Italiana, finisce inevitabilmente per scordare il basso peso della nostra terra e quindi l’adozione di robuste manovre a sostegno dello sviluppo territoriale. Il secondo motivo, non meno importante, è la scarsa preparazione politica e culturale di questa classe dirigente: a proprio agio nelle classiche manovre clientelari, ma tutt’altro che abile nell’individuazione delle dinamiche sociali ed economiche che dovrebbe giustificare il loro mandato politico in vece della cittadinanza.
Pensate, ancora oggi molti di essi non hanno neppure capitato l’utilità politica, geostrategica ed energetica del gasdotto Galsi (purché concepito in un tracciato economicamente ed ambientalmente compatibile) né in rapporto alla struttura economica dell’isola, né in rapporto al sistema Europa (da capitalizzare politicamente appunto) che deve diversificare le fonti e le località di approvvigionamento energetico per il medio termine.
Non solo insomma non abbiamo ancora visto nuove proposte statutarie (al di là di quelle citate), ma stiamo andando incontro a criteri di imbarbarimento della politica e di “meridionalizzazione” della stessa: pensiamo al politico di Iglesias che durante la campagna elettorale per le Amministrative 2010 si è messo a distribuire pacchi di pasta per la strada in cambio di voti.
PD e PDL preferiscono annegare nell’alcool del solito teatrino di accuse reciproche l’utilità di fare sistema per calibrare il federalismo fiscale in base alle nostre esigenze (e non a quelle del nord-Italia). Federalismo che comunque la Lega Nord ha avuto il merito di proporre in uno Stato rigido come quello Italiano.
“L’unione fa la forza” è il motto dello Stato Belga, ma non sembra funzionare a dovere.
Probabilmente dovremmo adottarlo noi Sardi, ma non certo per saldarci ulteriormente alla periferia in cui ci ha ridotto Roma, ma per unire tutte quelle voci riformiste che oggi nella politica Sarda non emergono a causa della cecità di cui parlavamo.
La Giunta Cappellacci cadrà o non ci saranno i tempi idonei per avviare la Costituente che chiamerà il Popolo ad esprimersi sul nuovo Statuto?
Invitiamo il Partito Sardo d’Azione a lasciare retorica e demagogia per passare ai fatti: elabori una proposta o perfezioni le esistenti. Si faccia sentire con gli alleati e l’opposizione. Dal canto loro, i movimenti indipendentisti abbandonino le chiacchiere ed esprimano proposte. Si scrivano nuove proposte statutarie, si discuta.
Diciamo questo perché non è la prima volta che la politica utilizza demagogicamente il tema delle riforme per poi non avviare alcun percorso pratico in tale direzione.
Dobbiamo “educare” la Sardegna a capire che lo sviluppo economico passa per la specialità, quella vera: dove si riconosce la Nazionalità Sarda (non dove sparisce persino il Popolo Sardo); dove si aumenta il nostro peso politico, quindi anche nelle istituzioni Europee. E dove si iniziano a gestire meglio le leve fiscali su cui si produce la ricchezza e si sviluppano gli investimenti.
Il valore aggiunto della Sardegna non è nell’omologazione all’Italia, ma è proprio nella specificità e nella qualità delle nostre produzioni, del nostro ambiente e della nostra identità.
Ma per arrivare ad attirare capitali e turismo esterno, non basta solo agire sul fisco, dobbiamo anche formare la nostra stessa popolazione alla riscoperta della nostra essenza: la Storia e la Letteratura Sarda devono entrare nella Pubblica Istruzione regionale. La cultura nostrana deve essere messa in condizioni di prosperare, non di essere ridotta a mero strumento folkloristico per sagre paesane.
Per parlare di “Cassa Sarda delle Entrate” inoltre, ricordiamo agli amici di IRS – movimento in cui diversi attivisti ritengono si possa costituirla con il semplice esercizio dell’art.51 dello Statuto Speciale – che la capacità di proporre o contestare una data legge è ben altra cosa che integrarla all’interno di un quadro normativo che DEVE essere di natura statutaria. E nel caso corrente, andrebbe ovviamente rivisto l’attuale Titolo III° – Finanze, Demanio e Patrimonio.
Quindi gli art. 8 e seguenti dello Statuto Autonomo Regionale. Ma non solo.
Torneremo in ogni caso con un commento specifico sul tema delle riforme istituzionali, perché la grande sfida oggi è capire che non ci può essere Autonomia Finanziaria senza Autonomia Culturale, e viceversa. La Lingua Sarda quindi non è certamente l’unico elemento della Specialità che dovrebbe essere contemplato nella riscrittura di uno Statuto.
Dobbiamo dotarci di quegli strumenti legislativi che ci consentano di controllare ma anche di valorizzare il sistema Sardegna sia nei periodi di crescita che nei periodi di crisi globale.
Ci riusciremo? Certamente. Perché i riformisti ci sono, i Sardi odierni non sono sempre colti da quella curiosa “Sindrome di Stoccolma” di cui abbiamo parlato alla Sardegna qualche tempo fa.
Rimbocchiamoci le maniche, possiamo farcela. Fortza Paris!

- Sul tema “Popolo Sardo, Sovranità e Costituzione Italiana”: Documento in PDF (22-04-09).

Di Bomboi Adriano.

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