Mediterraneo: La Sardegna di fronte alla crisi egiziana e tunisina

La giornalista di origini Sarde Barbara Serra, volto noto di Al-Jazeera International, rilancia da Twitter le fasi concitate che hanno visto per protagonista l’Egitto. Il destinatario? Il mondo.
Ma in Sardegna quanto abbiamo capito di ciò che sta succedendo al di là del nostro Mediterraneo?

C’è un elemento comune che nelle ultime settimane ha attraversato le manifestazioni di piazza che si sono succedute dall’Albania alla Giordania, nel Libano, e dalla Tunisia al Cairo: si tratta dell’uso di internet come mezzo di consapevolezza della democrazia e strumento di raccoglimento della protesta.
Un fenomeno ben diverso dall’uso abituale (a fini ludici) che attraversa il tempo libero dei giovani occidentali.
Soffermiamoci sul caso egizio e tunisino.
In Egitto, ben 2 terzi della popolazione sono sotto ai 30 anni. Si tratta della “generazione Mubarak”, quella cresciuta all’ombra del successore di Sadat. Ma chi era Sadat? E perché anche l’Egitto subisce l’onda lunga della protesta nord’africana partita dalla Tunisia?
Per capire le ragioni di questo rivolgimento popolare in seno ad una parte del mondo musulmano, non possiamo non osservare la genesi degli attuali stati arabi alla luce della guerra fredda, periodo in cui furono poste le basi della polveriera a cui stiamo assistendo nelle ultime settimane.
Con la presa di potere di Nasser nel 1956, l’Egitto si liberava definitivamente dell’occupazione britannica, destinata tuttavia a permanere secondo diverse forme (tecniche e commerciali), facendo entrare lo Stato nell’orbita di quello che diverrà formalmente in seguito il “Movimento dei non allineati”, ovvero Paesi non necessariamente legati agli USA od all’ex Unione Sovietica.
Ma se da un lato Nasser diventava il simbolo di una visione romantica del panarabismo, per contro, il suo modello monopartitico di ispirazione socialista porterà la sua politica a sviluppare avversari eccellenti tanto in patria quanto in occidente. La celebre nazionalizzazione del Canale di Suez (tutt’oggi snodo strategico economico – petrolifero/merci – degli equilibri politici internazionali) costò una guerra con Londra e Parigi ed un intervento di Washington e Mosca per placare le ostilità, a cui tuttavia seguì l’epoca delle note battaglie contro Israele.
Da Nasser in poi, la politica egiziana ha seguito una linea di repressione, contenimento e sporadiche aperture verso l’area politica dei Fratelli Musulmani, una vasta organizzazione islamica ancora oggi avversata dal regime del Cairo.
Scomparso Nasser, Sadat proseguirà infatti una politica autoritaria nei confronti della “Fratellanza Musulmana” che ebbe il suo culmine con la storica visita – la prima di un leader arabo – in Israele nel 1977. Circostanza che proiettò definitivamente l’Egitto nella sfera di influenza occidentale nonché come baluardo a “sostegno” di due mondi: quello nord’africano (e più propriamente mediorientale) e quello euro-mediterraneo, ponendosi dunque come pilastro di stabilità dell’area, assieme alle diverse monarchie arabe di matrice sunnita e wahabita (come l’Arabia Saudita). L’islamismo estremista farà pagare col sangue a Sadat questa decisa svolta nel cinquantennale clima di tensione che oppone diversi Paesi arabi all’esistenza stessa dello Stato Ebraico.
Il Mubarak del 2011 dunque è stato un figlio di questo passato ma anche della nuova politica statunitense emersa con gli attacchi dell’11 settembre 2001, quella della lotta al terrorismo. Una strisciante guerra civile che in Egitto (a differenza del caso pakistano) ha trovato un nuovo impulso a danno dell’estremismo di matrice islamica, così come già osservato nei drammatici attentati della vicina Algeria, progressivamente eliminati.
Secondo una buona parte della popolazione sciita (come in Iran), le odierne sollevazioni popolari sarebbero tuttavia da interpretare come una richiesta di giustizia nei confronti di un sunnismo eccessivamente piegato agli interessi dell’occidente (ed agitatore occulto del terrorismo).
Al di là di tali strumentalizzazioni, dalle forti implicazioni religiose (e comunque fondate, come in campo economico), la crisi egiziana apre molte incognite non solo sul versante della stabilità politica delle suddette aree, ma anche della ripresa globale che un eventuale problema nell’area di Suez potrebbe rallentare.
Il caso tunisino ha una natura storica meno sanguinosa ma non per questo meno delicata delle altre.
Anche nella recente sollevazione popolare tunisina, la crisi economica e la necessità di una vera democrazia paiono tematiche esplose solo a seguito delle contestazioni religiose che in Egitto sono state rispolverate lo scorso Natale con l’orrenda strage di alcuni fedeli copti in una chiesa durante le celebrazioni.
In verità, le radici del malessere sociale hanno origine nella controversa opera di modernizzazione della Tunisia seguita all’indipendenza dalla Francia da parte del primo presidente Bourguiba.
Il Bourguiba socialista, esponente di una Repubblica fortemente sbilanciata a favore dell’esecutivo e dai forti tratti autoritari, propugnerà analoga linea di contenimento dell’estremismo islamico seguita dall’Egitto e da altri paesi arabi.
Una condotta che spesso è stata utilizzata dai membri dell’esecutivo come apologia per il mantenimento del potere, esaltando oltremisura i potenziali rischi di terrorismo a danno della collettività e degli interessi economici generali.
Con la vecchiaia di Bourguiba, soggiunse un imponente e progressivo sistema di clientele (peraltro endemiche), di corruzione e malcontento generale a cui si accompagnarono, per conseguenza, nuove ondate repressive di natura poliziesca a carico del pressante estremismo islamico.
Giunto il Morbo di Alzheimer, Bourguiba fu deposto da un colpo di Stato pacifico sostenuto dall’Italia di Bettino Craxi (ed Andreotti) a favore del presidente Ben Ali, quest’ultimo recentemente fuggito all’estero dopo un breve passaggio in Sardegna.
Furono diversi i motivi che diedero vita all’attuale assetto di potere della Tunisia di Ben Ali.
Con la crisi degli anni ’80, parve subito evidente a tutti che l’energica posizione di Bourguiba contro il radicalismo islamico avrebbe portato al risultato opposto, scatenando anche un potenziale intervento militare da parte di una Algeria che aveva ogni interesse nel preservare il suo gasdotto verso l’Europa (di cui una parte di esso collocato in territorio tunisino).
L’Algeria in questo intento fu agevolata dall’incombenza di un cerchio politico-militare che dalla Francia di Mitterrand si estendeva al Marocco ed alla Libia.
Ben Ali fu dunque individuato come l’uomo capace di sostenere una indolore continuità del potere che tutelasse sia la Tunisia, sia la stabilità politico-economica dell’area.
Tutto ciò nonostante importanti settori dell’intelligence francese guardassero con sospetto all’ingerenza italiana in un’area geografica che consideravano “impero francese”, come ebbe modo di dichiarare l’Ammiraglio della Marina Militare Italiana ed ex capo del SISMI Fulvio Martini alla Commissione Stragi del Parlamento ed in una nota intervista su “La Repubblica” del 1999.
Le fortune degli investimenti italiani crebbero di pari passo a quelle personali e familiari dell’autoritario Ben Ali. Circostanza che favorì la gratitudine del presidente tunisino verso Craxi negli anni del suo volontario esilio dall’Italia dopo tangentopoli.
La fuga di Ben Ali dopo la sollevazione popolare ha mostrato alla storia la prima volta in cui, in epoca contemporanea, un politico autoritario ha abbandonato volontariamente il potere, probabilmente temendo ritorsioni di sangue a suo carico sulla falsariga di quanto successo nella Romania del post-Ceausescu o, nei secoli passati, a carico di alcuni sovrani bizantini.

Recentemente anche la Siria ha seguito l’esempio egiziano del blocco totale del web (esclusa la telefonia ed alcuni media) per arginare i rischi di un potenziale sussulto popolare a Damasco. L’esercito di tali Paesi dovrebbe potersi far garante della sicurezza nazionale e del rispetto del dissenso.
Ci auguriamo che nei prossimi tempi la democrazia possa seriamente divenire realtà in Paesi dove il gattopardismo del potere ha la sua massima espansione, ma che, parimenti, siano posti adeguati margini di solidità nella lotta al terrorismo e siano tutelati i margini d’investimento entro i quali, ne siamo certi, anche la Sardegna avrà un ruolo più attivo del presente così come lo fu nel commercio del Mediterraneo antico.
Pensiamo infatti ad una presenza maggiore sul piano economico e culturale che la Sardegna potrebbe sviluppare in ragione della riscrittura di un nuovo Statuto Autonomo e di una seria presenza in sede UE. Non più, comunque, di quanta ne potrebbe avere qualora indipendente. Ma oggi dobbiamo ragionare sull’attualità, ovvero non limitarci a sperare che i benefici economici, in casi come questi, ci vengano esclusivamente da un turismo che, verosimilmente, quest’anno diserterà le prenotazioni in Egitto e Tunisia avvantaggiando le mete nostrane.

Grazie per l’attenzione.

Di Bomboi A. e M. Corda.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi

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