Da Barcellona a Damasco: Il lungo cammino della democrazia
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Convergència i Unio’, il partito nazionalista catalano, ha conquistato la maggioranza relativa di Barcellona, capitale della Catalogna. Battuto il centrosinistra del premier spagnolo Zapatero ma anche i Popolari del centrodestra spagnolo. Barcellona passa quindi ai nazionalisti, demolendo con 3 seggi in più rispetto al 2007 la leadership socialista, che durava fin dal 1979. Analogo risultato a Girona.
Con la conquista di Barcellona, i nazionalisti del CiU diventano il primo partito di tutta la Catalogna, superando un centralismo che negli ultimi tempi aveva costretto migliaia di manifestanti in piazza contro una politica madrilena incapace di affrontare tempestivamente la crisi economica e dare fiato all’occupazione. Dopo le elezioni a Barcellona nella Plaza Catalunya il movimento degli “Indignados” ha continuato a manifestare tutto il suo disagio verso il Governo centrale.
Nei Paesi Baschi è stata invece la nuova sinistra indipendentista di Bildu (erede di Batasuna) ad ottenere una buona performance con un 26% di consensi, comunque indietro rispetto al Partito Nazionalista Basco (PNV).
L’occidente, anche se con difficoltà, sta conoscendo la primavera di un nuovo movimento nazionalista internazionale che attraversa ormai diversi Stati della nostra vecchia Europa.
I popoli oggi hanno finalmente il diritto di autogovernarsi e di eleggere dei propri rappresentanti al fine di garantire, secondo i rispettivi programmi, quello sviluppo economico e quella tutela culturale che i partiti centralisti, espressione di Stati-nazione ottocenteschi, non sono più in grado di assicurare. Essere protagonisti in questa moderna globalizzazione significa amministrare direttamente il proprio territorio senza delegare il proprio voto a partiti che rappresentano interessi esterni.
Ma se in Europa questo principio sta lentamente avanzando sui grandi numeri della politica, in Medio Oriente vi sono numerosi casi dove la democrazia nel 2011 è ancora un istituto semisconosciuto e per il quale migliaia di riformisti si stanno riversando nelle piazze, sfidando gli autoritarismi che li governano. Come nello Yemen ed in Siria.
Nel primo caso proseguono i disordini tra i governativi e le popolazioni del sud in un Paese gestito da una logica tribale e che vede accentrato nel solo 4% dei suoi cittadini l’intera ricchezza determinata prevalentemente da esportazioni di gas e petrolio.
Il governo è accusato di corruzione e di sistematica soppressione del dissenso. Tutti i principali organi di informazione sono controllati dall’establishment al potere e sono diversi i casi di discriminazione a carico della popolazione denunciati dai massimi organismi internazionali.
Secondo fonti ONU, nell’ultima settimana di maggio in soli due giorni l’esercito yemenita e le guardie repubblicane controllate dal governo avrebbero ucciso oltre 50 civili nel tentativo di soffocare le proteste che mirano ad instaurare una repubblica democratica.
Il presidente ‘Ali ‘Abd Allah Saleh lo scorso 23 marzo ha annunciato l’intenzione di indire entro la fine del 2011 nuove elezioni ed un referendum costituzionale destinato a riorganizzare le istituzioni di Sana’a. Il 23 aprile scorso, su intervento del Consiglio di Cooperazione del Golfo (formato dalle principali monarchie saudite arabe come quella saudita e del Qatar), Saleh avrebbe accettato di condurre una transizione istituzionale per poi dimettersi, ottenendo in cambio l’immunità. Anche il Bahrein (membro del Consiglio di Cooperazione) è alle prese con una rivolta interna. Il re Hamad Ben Issa al Khalifa ha rivolto un appello all’opposizione proponendo la data del primo luglio come avvio per un dialogo nazionale destinato a riportare la calma.
Per la Siria la situazione è molto più complessa. E’ la punta di diamante della politica anti-israeliana in Medio Oriente ai confini col Libano, circostanza che fa entrare il regime ba’thista in piena sintonia con l’Iran e gli Hizb’Allah libanesi, lo strumento politico-militare con il quale Damasco interagisce direttamente nella vita di Beirut. Ma quanti sanno che il Capo di Stato Italiano Giorgio Napolitano nel 2010 ha conferito al presidente siriano Bashar al-Assad il titolo di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”?
Oggi lo stesso Assad è l’autore di una politica repressiva a carico delle contestazioni al regime del suo partito Ba’th, ma diversi cittadini avrebbero già deciso di intraprendere una resistenza armata dopo il bagno di sangue delle scorse settimane attuato dalle truppe governative. Nella cittadina di Rastan, nei pressi di Homs, la popolazione avrebbe risposto al fuoco dell’artiglieria e dei blindati siriani. L’Unione Europea è intervenuta lanciando delle sanzioni contro Damasco, come il congelamento dei beni di oltre 13 funzionari del regime, ma non del presidente. E’ stato inoltre avviato un embargo di armi contro la Siria.
Il doppiopesismo dell’occidente nella trattazione dell’affare siriano denota l’enorme difficoltà nel calmierare una situazione nella quale gli interessi economici si sovrappongono a quelli politici: se infatti per alcuni Stati è preferibile continuare la partnership commerciale con il regime di Assad sottovalutando il peso della repressione contro i civili, per altri Stati la repressione sarebbe un’ottima giustificazione con la quale indebolire e destabilizzare il governo siriano e la sua politica estera nella regione. Ma nessuno allo stato attuale (e neppure Washington) contempla una soluzione militare. Il 31 maggio il presidente Assad nel tentativo di placare le proteste contro i 48 anni di regime a partito unico ha annunciato un’amnistia generale a favore dei ribelli e dei partiti illegalizzati, inclusi i “Fratelli Musulmani” (particolarmente attivi in Egitto).
Il vento della democrazia continua a soffiare, e se in Europa sta consentendo alle minoranze di emergere, in Oriente è destinato a cambiare per sempre la natura degli autoritarismi che proprio l’occidente ha contribuito a consolidare.
Di Roberto Melis.
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