Dal Forte Village alla situazione del lavoro in Sardegna. Ma i media tacciono

Stato del lavoro in Sardegna: il mancato sviluppo economico e culturale della nostra isola passa anche da qui.

Qualche settimana fa ha avuto un certo risalto la descrizione delle condizioni di lavoro dei dipendenti del Forte Village di Santa Margherita di Pula fatta da un giovane Sardo, Daniele Garzia (pubblicata su cagliarifornia.eu), che per qualche tempo ha prestato servizio nella struttura.

In quelle righe si può trovare e riassumere lo scarsissimo livello di civiltà che si può riscontrare in tante realtà lavorative italiane e Sarde. In breve, il ragazzo si è trovato ad avere a che fare con fenomeni di caporalato e con l’assoluta violazione delle norme contrattuali in materia di straordinari e di orari di lavoro.

Purtroppo il refrain che ci si sente dire è sempre lo stesso: “Se non ti sta bene, te ne vai. Con la disoccupazione che c’è, altre 1000 (disperate) persone lo farebbero volentieri al posto tuo”. Quindi, una buona fetta di lavoratori ogni giorno è costretta a mandare giù vari soprusi ed umiliazioni a causa di questa crisi che opprime la nostra economia. Ma è solo la “crisi” a determinare una compressione dei diritti dei lavoratori e della loro qualità di servizio?

In realtà, il problema è ben più grave di come potrebbe apparire ad una prima analisi: nella gran parte delle occasioni a determinare questi soprusi è solo l’aridità personale e culturale dell’imprenditore (o commerciante, o qualsivoglia categoria di datore di lavoro). In questi casi, il dipendente viene ben presto inquadrato come un “essere inferiore” da spremere il più possibile e di cui si può fare quel che si vuole.

Questo, ovviamente, succedeva già prima della crisi attuale, ma la recessione economica è stata il paravento dietro al quale si è giustificata l’estensione del fenomeno. Naturalmente non bisogna generalizzare, esistono anche i casi positivi di altri imprenditori, attualmente in decisa minoranza, che darebbero la vita per azienda e dipendenti, e che si comportano in maniera impeccabile sia dal punto di vista economico che da quello umano. Non sono molti, ma ci sono. Ed è nostro compito assecondare la parte più virtuosa della nostra imprenditoria, prevalentemente formata da piccola e media impresa. Pensiamo ad un arretramento dello Stato ed una maggiore presenza della nostra Autonomia, che potrebbe ridurre il carico fiscale che oggi consente alle zone d’ombra del nostro tessuto economico di danneggiare gli interessi dei lavoratori.

Insomma, ci sono delle situazioni in cui purtroppo è solo il denaro a prevalere su tutto, e altre in cui fortunatamente le relazioni personali in azienda sono reputate fondamentali per garantire un buon andamento in ambito lavorativo. Ma spostare l’ago della bilancia verso quest’ultimo contesto richiede una politica lungimirante che riguarda la sovranità della Sardegna, che dovrebbe sviluppare sia la competenza in ambito formativo e sia la competenza in materia fiscale.
La pessima condizione dei lavoratori dipendenti infatti è un problema culturale dovuto a tanti fattori, economici, sociali e dell’istruzione italiana in Sardegna. La nostra isola ha subito un processo di “meridionalizzazione” delle politiche del lavoro, poiché la scarsa formazione dei nostri attuali imprenditori li ha portati a perseguire l’unico modello di lavoro che hanno conosciuto nel passato, fatto di enormi sacrifici scarsamente retribuiti. Come se la “gavetta” sia un percorso obbligato che nella vita professionale non ha nulla a che vedere con la competenza ma con il solo fatto di lavorare di più ed essere pagati di meno. A ciò si aggiunga lo spettro dell’assistenzialismo politico, dove la cassa integrazione sigilla il parassitismo sociale perché non crea lavoratori in grado di contribuire al ciclo economico ma disoccupati che vivono sulle spalle della collettività (come ben descritto anche dal segretario della Confederazione Sindacale Sarda Giacomo Meloni).
Siamo i figli del “Piano Marshall”, un Popolo di emigrati che nel dopoguerra si recava nel cuore dell’Europa in cerca di fortuna, accettando quel che passava il convento, senza però interrogarsi sull’effettiva equità nella distribuzione del reddito fra imprenditore ed operaio. E voi comprenderete che il rischio di ideologizzare il tema, sia da una parte che dall’altra, è molto alto.

Da questo punto di vista, non a caso le civilissime nazioni Scandinave sembrano lontane anni luce da noi. La crisi la avvertono tutti, ma un conto è trattare i propri dipendenti come schiavi, e un altro fare in modo di renderli partecipi sui problemi aziendali e fare il possibile affinché ognuno di essi mantenga la propria dignità e il dovuto rispetto.
Come disse Totò in tempi non sospetti: “Gli uomini si dividono in due categorie: uomini e caporali”. Il caporalato, ma anche il mobbing sul posto di lavoro, spesso è proprio un retaggio del suddetto problema.

Talvolta è possibile riconoscere imprenditori poco raccomandabili anche prima di incontrarli, ad esempio nella lettura degli annunci di lavoro.
A chi non è capitato di trovarsi davanti a delle pretese veramente assurde per mansioni che richiederebbero al massimo la 5° elementare? O a contraddizioni nel testo stesso di ricerca del personale? (es. “Cercasi apprendista ‘X’ con esperienza”. Se ha esperienza, che apprendista è?). Annunci simili non meriterebbero alcuna risposta. E che dire di altri annunci che cercano figure professionali che di fatto non esistono? (es. “Cercasi ‘X’, massimo 25 anni con 5 anni di esperienza, 3 lingue, auto propria, residente in loco, ecc.”).

Insomma, è una situazione che sembra stia sfuggendo di mano persino agli imprenditori stessi, che pare non sappiano esattamente di cosa hanno bisogno, e quand’anche lo sanno e lo trovano, magari pretendono di pagare una miseria la persona assunta, sempre con la scusa dell’onnipresente crisi.
Eppure, con maggiore lungimiranza, sarebbe interesse primario di tutti i datori di lavoro pagare i dipendenti in modo puntuale e con cifre congrue rispetto al lavoro svolto. Del resto, se un disgraziato non ha entrate non può avere neanche uscite, e se le ha ma non sono adeguate, è costretto a tagliare le spese, prima il superfluo e poi anche il necessario, e da qui, arrivare alla crisi del commercio, del settore immobiliare, del settore auto, del turismo, ecc., è un passo.
Certa imprenditoria è come un cane che si morde la coda: si fa i “furbi” pagando poco il personale, che poi a sua volta è costretto a contenere al massimo i consumi.
Generalizzando la dinamica, si impoverisce una zona, e prima o poi il danno ricade sulle medesime aziende.
A tutto questo aggiungeteci lo Stato, perché con la sua pressione fiscale ed una normativa che dietro la scusa della flessibilità droga la nostra economia, consente agli imprenditori meno virtuosi di fare un uso sistematico di contratti di lavoro a breve o brevissima scadenza, innescando il processo di regressione economica del lavoratore.
La flessibilità Scandinava è ben diversa dalla nostra, in quanto il virtuosismo economico consente una rapida immissione del lavoratore in esubero verso una nuova posizione professionale. Da noi un mercato scarsamente innovatore e munito dei problemi di cui sopra, non potrà mai consentire al lavoratore di cambiare professione senza problemi, per il semplice fatto che non esiste alternativa al già esiguo lavoro eventualmente perduto.

Ci preme segnalare come altrove, ad esempio in Svizzera, sono in corso degli importanti movimenti politici per innalzare gli introiti minimi sindacali delle paghe dei lavoratori. Si tratta di cifre notevoli per la Sardegna e l’Italia, quasi 4000 franchi al mese, ma, facendo una proporzione con la nostra economia, si parla di un trattamento minimo corrispondente e non inferiore ai 1.600/1800 € mensili. Il tutto per garantire un certo benessere a tutta la cittadinanza, e non ai soliti pochi “noti”.

Ora, non siamo così ingenui da aspettarci analogo innalzamento delle buste-paga del lavoratore dipendente, ma quando si osserva un caso come il Forte Village, dove una struttura che fattura milioni di euro tratta sistematicamente male il singolo operatore, non siamo più di fronte ad alcuna legge di mercato ma alla pura e semplice speculazione fatta sulla pelle di un Popolo in balia di forze che invece potrebbe controllare.
I media non sembrano orientati ad occuparsi di problemi come quello di Pula e del resto della Sardegna: da un lato vi sono notevoli ingerenze lobbistiche con sponde nella politica regionale, dall’altro vi è la classica mentalità da figli del “Piano Marshall” di cui parlavamo, come se sacrificarsi per “ingrassare” gli altri sia un atto moralmente dovuto “perché la gavetta è così” e “perché prima c’era la povertà”.
La soluzione esiste, non è retorica: alle elezioni, scegliere sempre i partiti Sardi. Solo loro possono contribuire ad aiutare gli imprenditori onesti contro lo strozzinaggio di Stato e solo loro possono occuparsi di far valere i diritti dei lavoratori.

Di Maurizio Floris.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Nazionalisti Sardi

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