Autonomie e D.P.R. n. 752-76: La potenza economica della ‘dogana linguistica’
Quando ci domandiamo il senso dell’esistenza di una Regione Autonoma rispetto ad una ordinaria non si può che tornare alla ragione principale che istituì le differenze all’interno del nascente assetto repubblicano nel secondo dopoguerra: il pluralismo, sia linguistico che culturale. Ed in base ad esso, anche la conseguente maggiore autonomia in campo tributario e fiscale. Pertanto, a differenza del Regno d’Italia (e dunque del fascismo seguito ai primi governi “liberali” e della sinistra storica fra la seconda metà dell’ottocento e la prima metà del novecento), la Repubblica riconosceva timidamente l’inesistenza di una nazione italiana unita sotto ai medesimi interessi economici e culturali dal nord al sud della penisola, isole comprese. Col varo della Costituzione del 1948, le istituzioni centrali furono obbligate a riconoscere indirettamente che la nazione italiana, artificiosamente edificata nel corso di un secolo, non corrispondeva al territorio dello Stato. Stato e nazione avevano ed hanno dunque una estensione geografica diversa. Ma i problemi furono tutt’altro che risolti, perché questa insidiosa consapevolezza portò i costituenti a tener separato il concetto di minoranza linguistica (costituzionalmente tutelato) da quello di minoranza nazionale, persistendo nell’ideologia risorgimentale che propagandava una sola lingua ed un solo popolo, ascrivibile a quello italiano, che secondo la nuova magna carta repubblicana, ancora oggi, è l’unico detentore della sovranità entro i confini del nostro Stato (e delle minoranze ivi comprese). Paradosso vuole dunque che le minoranze, benché munite di cittadinanza, non posseggono gli stessi diritti sovranitari nominalmente riconosciuti al popolo italiano, di cui vengono considerati parte integrante. Nel mezzo secolo successivo non furono solo le istituzioni a limitare i diritti di tali minoranze ma persino il mondo accademico e, più in generale, quello intellettuale, declassando (spesso con argomentazioni ideologiche piuttosto che scientifiche) talune lingue al rango di dialetti. Fu così che progressivamente diverse Regioni Autonome perdettero il senso della propria esistenza e non riuscirono neppure a tutelare la poca autonomia fiscale conquistata grazie all’avvento del regionalismo: classi dirigenti locali, palesemente centraliste ed incuranti in materia, hanno perpetuamente confuso gli interessi del territorio con quelli della penisola (non sempre coincidenti), recando così grave nocumento all’istituto autonomistico, ormai ridotto al rango di un qualsiasi ente ordinario, gestito secondo modalità clientelari e parassitarie, in spregio alle effettive esigenze delle popolazioni locali, cui spesso ci si è rivolti in misura totalmente assistenziale.
Ma non sempre è andata così, e persino l’ONU ha dovuto imporre all’Italia il rispetto delle sue minoranze, come nel caso dell’Accordo Gruber-De Gasperi sulla vertenza Altoatesina.
Passiamo direttamente al 2013, infatti, il Trentino-Alto Adige/Sudtirol è la Regione Autonoma con il più alto tasso di benessere della Repubblica Italiana, superiore alla media dei cittadini dello Stato e con indiscussi vantaggi garantiti, non solo dal suo Statuto Autonomo, ma anche, ad esempio, dall’art. 117 della Costituzione Italiana. Dunque, nel concreto, come si è superato il problema politico-giuridico che si presentava nel secondo dopoguerra? Ed in questo caso a cosa è servita la lingua locale nel potenziare l’economia del territorio?
Il 1976 è un anno fondamentale nel diritto italiano, perché il legislatore, stavolta impersonato dalla presidenza della Repubblica stessa, ha emanato le più avanzate norme di attuazione dello Statuto Autonomo del Trentino, e con esse, per la prima volta nella storia della Repubblica, la capacità di una lingua territoriale di fare sistema in campo economico ha ricevuto una copertura legale, la quale ha poi consentito ulteriore sviluppo nei termini in cui lo conosciamo oggi. Caso analogo alla Val d’Aosta, malgrado solo negli ultimi decenni rispetto al francese il francoprovenzale abbia assunto lo status di minoranza vera e propria.
Ma in che modo la lingua ha protetto l’economia?
Come noto a sociologi, semiotici ed altre categorie di studiosi, ogni lingua è altresì un codice, riconosciuto ed utilizzato da una data cerchia e/o moltitudine di persone, fare sistema significa quindi – non chiudersi agli stimoli esterni – ma difendersi dalle eventuali avversità che potrebbero minacciare il benessere della comunità. Per fare qualche esempio, pensiamo ai codici comunicativi di alcune categorie professionali e commerciali milanesi, campane, romane, ecc. Il D.P.R. n. 752 del 1976 ha tutelato i cittadini del Trentino-Alto Adige/Sudtirol nel settore del pubblico impiego e, di conseguenza, anche nei rapporti informali e nella capacità di fare impresa fra i privati. Se in Trentino non si ha la patente linguistica non si può operare. Qualsiasi lavoro nella pubblica amministrazione e nei rapporti con il cittadino è subordinato alla conoscenza della/e lingua/e locale/i. Ecco perché, a differenza della Sardegna, le scuole, le amministrazioni locali e persino i servizi di pubblica sicurezza (pensiamo al bilinguismo nel bando di accesso al corpo dei Carabinieri), sono formati da cittadini del posto e, in percentuali praticamente esigue, da cittadini provenienti da altre Regioni.
Persino l’accesso alla Magistratura, come disciplina il Titolo III° del D.P.R. n. 752, è subordinato ad una commissione esaminatrice composta in misura paritaria da membri dei principali gruppi linguistici del territorio (art. 33 e seguenti). Da segnalare che, in particolar modo, per l’Istruzione e la fiscalità hanno notevolmente influito le nuove disposizioni normative seguite al cosiddetto “Accordo di Milano” fra Stato e Alto Adige (2009), reso possibile nell’ultimo decennio dalla modifica del Titolo V° della Costituzione Italiana (Vedere anche Sa Natzione, 23-05-13).
In Sardegna, le amministrazioni, le scuole, la giustizia e la polizia sono evidentemente costituite per buone percentuali da personale esterno alla nostra Regione, mentre, non di rado, diversi Sardi si trovano sparsi in altre Regioni della penisola (dove magari esiste anche minore capacità di permeazione linguistica e sociale).
In Alto Adige, fare sistema attraverso la lingua in modo legalizzato non comporta la flessione del principio costituzionale di eguaglianza fra cittadini, né crea un sistema tendente a marginalizzare chiunque voglia liberamente stabilirsi nel territorio. Ad esempio, un siciliano potrebbe benissimo insegnare a Bolzano, purché la sua conoscenza linguistica del territorio sia validata attraverso il rilascio dell’attestato linguistico emesso dalle autorità territoriali (grazie al D.P.R. n. 752 che diede attuazione allo Statuto Autonomo Altoatesino). Il concetto è che se si lavora per i cittadini non sono i cittadini che devono capire la pubblica amministrazione ma è il contrario, perché chi presta un servizio pubblico deve rendersi comprensibile al cittadino, ed anche accompagnarlo nella sua sfera pubblica, tanto nella formazione culturale, quanto nella capacità di fare impresa in sintonia con le caratteristiche locali.
Invece in Sardegna un docente siciliano potrebbe mai spiegare ad uno studente Sardo come fare impresa sulla base delle caratteristiche culturali, storiche ed ambientali del nostro territorio? Ovviamente no, in teoria potrebbe, ma questo processo in Sardegna non è disciplinato, di conseguenza, essendo pienamente assimilati sotto il profilo linguistico italiano e non avendo valida copertura giuridica del Sardo, non riusciamo a fare sistema, incrinando la nostra già esigua Autonomia regionale. Non riusciamo ad avere una scuola concretamente Sarda, né a tutelare dunque in prima istanza i nostri cittadini (sia nel settore pubblico, sia nel privato) rispetto a quelli di altre Regioni, e non solo. Ecco perché l’Alto Adige dispone di un capitale sociale in grado di tutelare e sviluppare il benessere della propria Autonomia, poiché fondato sulla capacità di fare sistema derivante dalla condizione di alterità linguistica giuridicamente riconosciuta.
L’ufficio linguistico del Sudtirol si configura dunque come una vera e propria “dogana” nella quale solo a determinate condizioni si può accedere alla cultura e quindi all’economia del territorio, nella sua gestione di beni e servizi. Ed è l’unica forma di “protezionismo” territoriale che ogni liberale dovrebbe avere in cima ai propri interessi, perché il rispetto dei diritti umani non passa per l’assimilazionismo ad una terza cultura, ma per la legalizzazione della propria nel libero e mutuo interscambio con le altre. Ovviamente l’indipendenza faciliterebbe l’espansione di questo processo, ma oggi il nostro compito è quello di osservare quali margini e quali spazi consente il diritto italiano per poterci fare strada nella conquista graduale della sovranità, e dunque dello sviluppo socio-economico.
La specificità linguistica ha portato in tale realtà anche una doppia valenza politica: la prima riguarda il valore della rappresentanza democratica. Infatti, pur essendo demograficamente inferiore al Sudtirol, la Sardegna, minoranza linguistica più grande della Repubblica, avendo solo la legge n. 26/97 di riconoscimento del Sardo (e la n. 482/99 statale) non può avere alcuna forza autonomista eletta fra i banchi delle istituzioni centrali, nel Parlamento Italiano. Ciò perché la legge elettorale, il cosiddetto “porcellum” (che tanti politici Sardi ignorano, più o meno consapevolmente), consente l’elezione di una lista territoriale (è sufficiente conquistare il 20% dei voti nella propria circoscrizione), ma questa prerogativa può essere esercitata solo dalle Autonomie che abbiano presente lo status di minoranza linguistica nel proprio Statuto Autonomo, cosa che la Sardegna ancora non ha (Sa Natzione, 23-01-13).
La seconda valenza politica del rispetto dello status di minoranza linguistica riguarda indubbiamente la capacità di stimolare la coesione fra le forze territoriali (autonomiste e indipendentiste). Così, mentre in Sudtirol è solo l’SVP a guidare il governo del territorio (e la rappresentanza esterna) con pochi altri movimenti locali, viceversa, in Sardegna, consegnando il governo a partiti centralisti, siamo arrivati a sfiorare i 13 movimenti autonomisti e indipendentisti Sardi, peraltro strutturalmente deboli, spesso alieni al contesto amministrativo, sociale ed economico del territorio. Una realtà tanto minoritaria quanto composita ed eterogenea a fronte di una cittadinanza Sarda costantemente esposta all’opera di italianizzazione da parte dei media e delle istituzioni centrali, con l’evidente pericolo per la sopravvivenza futura della nostra Autonomia, che certamente non potrà basarsi solo sulla condizione geografica dell’insularità e/o della richiesta di maggiore autonomia fiscale (senza il supporto del suo solido pilastro identitario, oggi alquanto fragile).
Recentemente, solo pochi consiglieri regionali come Efisio Arbau (La Base) hanno avuto l’ardire di parlare in Sardo in Regione. Per il resto, persino il Partito Sardo d’Azione, per non parlare degli innumerevoli movimenti Sardi non eletti, non hanno alcuna univoca posizione di sostegno a supporto dell’identità linguistica Sarda, né quindi sono in grado di offrire un coeso contributo affinché si superino le storiche diatribe sul Sardo e sulla sua standardizzazione, condizione propedeutica all’esaltazione formale dello status di minoranza linguistica (al riguardo si veda il testo sul Sardo di Giuseppe Corongiu).
Una riforma dello Statuto Autonomo è necessaria, perché senza specificità non c’è più Autonomia, e senza (vera) Autonomia culturale non esiste neppure quella economica.
La lingua Sarda dunque non serve solo a tramandare ai posteri il nostro patrimonio culturale/letterario e ad attualizzarlo, aspetto comunque giusto ed auspicabile (Is Novadores, 04-05-13), ma anche alla visione che abbiamo di noi stessi nella capacità di fare sistema, aspetto maggiormente segnalato da Enrico Piras (Is Novadores, 02-05-13), e che, a nostro avviso, richiede una inevitabile azione legale. La legge è quello strumento che storicamente ha consentito all’uomo di uscire dallo stato di minorità rispetto agli abusi. Ma se non vogliamo subire solo quella dello Stato-nazione, dobbiamo capire che abbiamo bisogno di scrivercela da soli, in base alle nostre esigenze.
Ovviamente la 752/76 non è la normativa migliore del mondo (ad esempio l’idioma ladino viene praticamente inglobato dai preponderanti gruppi linguistici dell’italiano e del tedesco), ma rimane un efficace e collaudato punto di riferimento dottrinario nella legislazione italiana a tutela delle specificità territoriali.
Adriano Bomboi.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos
[...] stesso arco di tempo la prima fornisce copertura legale al proprio status di minoranza linguistica (Sa Natzione, 01-06-13) e modella la sua economia sulla base delle caratteristiche ambientali e culturali locali, [...]
[...] scolastica, l’Alto Adige, tramite l’SVP, dopo decenni di plurilinguismo degnamente riconosciuto sul piano formale, arriva persino a proporre la formula della doppia cittadinanza. Ma noi che programmazione [...]
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