Fra costituzionalismo e liberalismo: Alle radici del pensiero autonomistico – Pt. 1

Di Adriano Bomboi.

L’autonomia come forma di tutela ed emancipazione individuale e collettiva, come nasce? Quali furono i suoi promotori?
Se osserviamo il mondo antico, la capacità di immaginare forme di autonomia, in senso lato, ha sempre fatto parte del genere umano. Ad esempio, già in Esiodo nelle sue opere abbiamo un sistema di valori in cui l’uomo si oppone alla presenza aristocratica, assegnando la virtù alla sola competizione per lo sviluppo fra i ceti laboriosi della popolazione. Inoltre, sappiamo che nel mondo ellenico si combatteva non solo per invadere i nemici, ma anche per difendere l’autonomia della polis da qualsiasi ingerenza. Ma atteniamoci ad eventi storici in cui è facilmente riconoscibile una produzione giurisprudenziale che ha come evidente obiettivo la tutela dell’autonomia della sfera pubblica e individuale di una determinata comunità stanziata in un determinato territorio.

Siamo attorno alla metà del XII° secolo, e nella penisola italica settentrionale si afferma con vigore la civiltà comunale. Benché alternativa al modello feudale, questa civiltà – con un modello poi diffusosi nell’Europa centrale, simile ma non identico alle antiche città-Stato greche – non si pose mai in termini di superamento del feudalesimo ma come strumento di affermazione di una nuova classe, la borghesia locale, interessata a preservare i suoi spazi dediti al commercio e di autonomia rispetto alla pervasività di una giurisdizione esterna. Tale pervasività fu prodotta dalla rinascita del Diritto Romano (Corpus iuris Iustinianeum) ad opera dei glossatori di Bologna. Una dottrina giuridica che fornì nuova autorità alle pretese imperiali di influenza sulla Chiesa e sulle autonomie comunali, che a quel punto videro indebolire la propria sfera di libertà. Fu il giurista Bartolo da Sassoferrato a fornire a tali Comuni una concezione legalitaria per la tutela delle proprie competenze, configurando così la sua opera come una delle prime trattazioni autonomistiche della storia. Un altro suo celebre contemporaneo, Marsilio da Padova, nel defensor pacis, estenderà la linea autonomistica anche nei confronti della Chiesa. Da un lato desacralizzò la figura del reggente, sostenendo che solo il popolo poteva essere buon legislatore, con un monarca sottoposto alle leggi, mentre dall’altro contestò la plenitudo potestatis del Pontefice, promossa dai canonisti medievali. Con la rimozione di un potere assoluto, sia laico che religioso, in Marsilio si scorgono tracce del primo costituzionalismo, nato alle origini nel mondo germanico, dove i reggenti venivano eletti, e non nominati su base ereditaria, denotando così una configurazione pattizia fra governatori e governati, che solo nei secoli successivi troverà la sua piena affermazione (pensiamo comunque alla Repubblica Veneziana o anche al moderno cantonalismo svizzero, dove non esiste neppure la figura del Capo di Stato).
Un primo atto formale di questo costituzionalismo nasce indubbiamente con la Magna Charta Libertatum di Re Giovanni d’Inghilterra, malgrado sia ancora ascrivibile ad una giurisprudenza di natura feudale, venne concessa ai baroni nel 1215. Più tardi, il giurista inglese John Fortescue elaborò un pensiero nel quale anche il governo regio doveva essere di tipo politico, cioè dotato di un consenso popolare che ne legittimasse l’azione amministrativa, allora prevalentemente basata sulla codificazione della consuetudine. Nell’opera di Brunetto Latini invece troviamo elementi di sorprendente modernità, come ad esempio l’introduzione del mandato a tempo per gli amministratori. A Firenze, umanisti come Leonardo Bruni sosterranno le prime libertà repubblicane dei Comuni, dove l’avversione alla tirannide ed il consenso popolare erano tratti ideologici essenziali.
Da ricordare soprattutto uno dei maggiori eventi autonomistici nella storia dell’esperienza comunale: la costituzione della Lega Lombarda del 1167, quando diversi Comuni della pianura padana strinsero una alleanza militare contro l’autorità dell’imperatore del Sacro Romano Impero Federico I° di Hohenstaufen (detto “Barbarossa”).
A differenza dell’Italia settentrionale, la Sardegna invece seguì una pulsione autonomistica più pratica che teorica, determinata dal contesto geopolitico del Mediterraneo occidentale nella prima metà dello scorso millennio. La distanza che separava l’Impero Bizantino dalla nostra isola – in passato influenzata da Costantinopoli – nel corso dell’espansione islamica nel Mediterraneo determinò una automazione obbligata della Sardegna, da cui ebbe origine la civiltà giudicale, ed in cui la massima espressione giuridica fu rappresentata dalla Carta de Logu, in lingua Sarda, adottata in ultima istanza sotto l’amministrazione di Eleonora d’Arborea. Malgrado sia improprio definire la carta come una Costituzione, all’epoca fu certamente uno dei massimi esempi di giurisprudenza autonoma prodotta da un popolo fattualmente indipendente. A dispetto dei luoghi comuni, in Sardegna un barlume di autonomia non ha cessato di esistere neppure sotto la dominazione della Corona iberica. Caratteristica dei monarchi ispanici era infatti quella di lasciare sostanziale autonomia ai regni amministrati dalla Corona, a differenza invece di quanto avverrà secoli più tardi, quando sotto i Savoia si adotterà, sulla base del modello francese, una centralizzazione istituzionale che culminerà con la perfetta fusione dei parlamenti del Regno Sardo-piemontese. Il centralismo castigliano tuttavia non cesserà di produrre malcontenti nei territori controllati dagli Asburgo, pensiamo alla rivolta dei comuneros castigliani del 1520 contro il fiscalismo regio di Carlo V°, o in particolare nei confronti dei territori degli attuali Paesi Bassi. Il terrore fiscale e di polizia instaurato dall’emissario di Filippo II° provocò nei domini olandesi la ribellione del 1568, che nel corso degli anni trovò legittimazione ideologica nel pensiero del giurista tedesco Johannes Althusius, di orientamento calvinista, uno dei primi federalisti della storia. In questi termini inizia a prendere forma un modello di autonomia che ha nella condivisione del potere il fulcro della propria spinta dottrinaria. Nel suo politica methodice digesta non è contemplata una sola figura istituzionale capace di detenere in forma esclusiva il potere. Althusius si contrappone così alla teoria della sovranità assoluta teorizzata dal francese Jean Bodin, che fin dal regno di Filippo “il bello”, passando da Luigi XIV° in poi, connoterà sempre più i tratti del centralismo. I parlamenti locali diverranno l’unica espressione dell’autonomia territoriale nei confronti del potere regio, evolvendo così la natura pluralistica degli ordinamenti medievali. Sarà il pensiero repubblicano (a partire da quello dualistico di Machiavelli), di John Milton, ed in particolare quello successivo liberale, a fornire ai popoli nuovi strumenti di opposizione e limitazione all’emergere, in età moderna, della sovranità assoluta su cui si getteranno le basi degli Stati-nazione ottocenteschi (fra cui quello italiano). Elementi di autonomia sono stati naturalmente forniti dall’opera di Lutero nei primi decenni del cinquecento, poiché grazie all’appoggio di Federico di Sassonia, i principi tedeschi del Sacro Romano Impero (nei domini su cui si svilupperà la Prussia) troveranno proprio nella dottrina protestante del teologo tedesco (ma pure nei territori elvetici con Calvino e nella monarchia inglese con lo sviluppo dell’anglicanesimo) una autonomia religiosa – e quindi all’epoca anche amministrativa – dalla gerarchia ecclesiastica romana. Fondamentale l’uso della lingua territoriale tedesca contrapposta al latino ufficiale, che stimolò la parentesi rivoluzionaria contadina promossa da Thomas Muntzer. In seguito, la teoria della condivisione del potere si proiettò verso nuove considerazioni, le quali mutuarono la propria ideologia anche verso il nascente diritto internazionale. Due autori in particolare vedranno nel federalismo l’unica base possibile per il mantenimento della pace: il primo è senza ombra di dubbio il diplomatico francese Charles-Irénée Castel de Saint-Pierre, che nel ’700 prospettò un sistema di regole fra Stati indipendenti che potesse assicurare la piena sovranità dei singoli. Il secondo fu il filosofo tedesco Immanuel Kant, che nel suo saggio “Per la pace perpetua”, immaginò analoga federazione di Stati come ad un consesso internazionale in cui il vicendevole riconoscimento giuridico avrebbe dovuto essere lo strumento della stabilità nelle relazioni fra i governi. Fra gli elementi del suo pensiero si contemplava la clausola di non ingerenza di uno Stato negli affari di un terzo Stato, nonché la progressiva abolizione degli eserciti e l’impossibilità di contrarre debiti pubblici per finanziare dei conflitti.
Un secolo prima lo sviluppo del parlamentarismo inglese, uscito vincitore rispetto alle antiche pretese assolutistiche di Giacomo I° (e dei suoi successori), portò un autore come John Locke a teorizzare la separazione dei poteri come strumento necessario per arginare il potere delle amministrazioni del Regno, introducendo così alcuni concetti cardine (promossi anche da Montesquieu) che diventeranno tipici nei successivi Stati liberali europei di fine ottocento. Vi fu dunque una chiara esplosione del primo pensiero liberale, avente come obiettivo la tutela delle libertà collettive e individuali dalla tirannide governativa, ed in contrapposizione al razionalismo hobbesiano, dove persino la proprietà privata non aveva alcuna autonomia rispetto alla volontà del “leviatano”. Dopo la rivoluzione francese sono Benjamin Constant prima, e Alexis de Tocqueville dopo, a capire che il superamento dell’ancien régime non aveva liberato l’individuo dall’oppressione dello Stato e della “volontà generale”, che da allora in avanti veniva espressa dalla diffusione del socialismo. Il concetto di autonomia andava quindi evolvendosi, non più semplicemente ascrivibile alla sfera pubblica di una data comunità, ma persino alla sfera individuale. Nella fattispecie, Tocqueville, studiando i neonati Stati Uniti d’America, troverà proprio nel federalismo, e quindi nella condivisione del potere delle autonomie locali, l’argine al conformismo ed alla mediocrità della massa popolare. Gli USA infatti non erano che l’esito finale di un doppio processo di automazione individuale e collettiva, se il primo stavolta si rivolgeva ad evitare uno Stato centralistico e dispotico all’interno, il secondo si liberava della tradizionale tirannide amministrativa (e soprattutto fiscale) della lontana monarchia inglese.
Ispiratrici di un movimento d’opinione tradottosi in istanza rivoluzionaria furono le Cato’s Letters scritte da Thomas Gordon e John Trenchard, dove la summa degli arbitri inglesi costituì il breviario per l’azione indipendentistica. Il modello istituzionale federale invece fu il frutto delle riflessioni e del compromesso esposto nei celebri Federalist Papers redatti da John Jay (fautore del Partito Federalista), Alexander Hamilton (a favore di un forte governo centrale) e James Madison (sostenitore di un maggior bilanciamento federale degli USA). A differenza della Francia infatti gli USA si erano liberati del centralismo, creando una realtà amministrativa policentrica. Lo Stato di diritto USA, ben diverso dagli Stati-nazione del vecchio continente, non contemplava un vero e proprio ministro dell’educazione, né un ministro dell’interno, né prefetture. E sulla base della spinta filosofica di Thomas Paine, si presupponeva la capacità di poter riformare in qualsiasi momento la Costituzione. Da ricordare il pensiero di Henry David Thoreau, che con la sua disobbedienza fiscale si oppose alla guerra messicano-statunitense, manifestando il primo esempio di automazione non-violenta rispetto alle scelte del governo centrale. Da considerare infine che con la Convenzione di Filadelfia del 1787 emerse la differenza fra il concetto di federazione e quello di confederazione. Se il primo era formato da uno Stato formato da Stati interconnessi, il secondo era una semplice rete di Stati sovrani. L’autonomia delle singole parti assumeva dunque una struttura multilivello.

Eppure, gli esiti della rivoluzione francese avevano influenzato tutto il mondo occidentale, Sardegna inclusa. Uno degli effetti positivi maturati dall’isola con l’ingresso dei Savoia fu quello di essersi sottratta all’isolamento intellettuale dovuto al lento declino della potenza spagnola, iniziato con le guerre di successione al trono di Madrid. La Sardegna di fine settecento è quindi una realtà che ha potuto assorbire il vento illuminista, e riuscì a maturare una classe dirigente (con in testa Giovanni Maria Angioy od intellettuali come Matteo Luigi Simon), che, malgrado contenuta, seppe animare una rivoluzione liberale anti-feudale, col probabile obiettivo di realizzare una Repubblica, sulla base del modello francese dell’epoca. Una ideologia autonomista che nel novecento verrà rilanciata dall’azionismo sardista di Emilio Lussu, Camillo Bellieni, Luigi Oggiano e tanti altri, fino al presente, dall’autonomismo all’indipendentismo. Va ricordato che lo scarso successo dell’azione angioysta non fu un caso isolato, ad Haiti l’insurrezione illuminista di Toussaint Louverture finì con il ripristino dello schiavismo francese, confermando l’ipocrisia del colonialismo occidentale nei confronti delle minoranze, che non potevano quindi godere degli stessi principi di eguaglianza affermati nella “madrepatria” francese.
Ma gli USA non abbandonarono mai il vento autonomista, ad esempio si deve al Segretario di Stato americano John Calhoun l’introduzione del principio autonomistico e federalistico della “nullificazione”, quello per cui ogni ente locale ha il diritto di opporsi ad un provvedimento amministrativo centrale qualora leda i suoi interessi. Mentre con la guerra di secessione americana il presidente confederato Jefferson Davis (a prescindere da valutazioni morali sull’esistenza della schiavitù), sancì il diritto degli Stati sudisti di opporsi agli interessi di quelli nordisti. Ancora oggi negli USA esistono movimenti e gruppi etnici promotori di autonomia e indipendenza, pensiamo al Texas Nationalist Movement od alle varie organizzazioni dei discendenti di nativi americani.
Ma sarà solo nell’ottocento che a livello globale le masse spingeranno con forza per tutelare la propria autonomia rispetto alle istituzioni centrali, e proprio allora, John Stuart Mill, alternativo al socialismo, e sulla scorta dell’utilitarismo di Bentham, proporrà l’estensione del suffragio per il diritto di voto e la necessità della molteplicità delle opinioni come base per lo sviluppo individuale e collettivo.
Oltre al modello mono-nazionale statunitense, dove de facto l’uomo bianco di matrice anglosassone occupò i principali centri di potere a dispetto di una Costituzione pluralista, si formarono modelli federali plurinazionali. Realtà istituzionali in cui popoli diversi, con diversi livelli di autonomia fra i federati, condividono il potere, come ad esempio il Canada o il Regno Unito (si parla in questo caso di federalismo asimmetrico). La multiforme ideologia autonomista e federalista ha dunque dimostrato di poter convivere sia in modelli democratico-repubblicani, sia in monarchie costituzionali di lungo corso caratterizzate dalla formula della rappresentanza. Ma soprattutto ha dimostrato di essere speculare, fin dalle origini, al pensiero liberale, per la sua necessità di opporsi a qualsiasi invadenza di poteri dispotici accentratori.

- Vedi Parte 2: “Fra nazionalismo e cattolicesimo, alle radici del pensiero autonomistico“.

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