Chi ha ucciso Arafat? Ci sono piste concrete?
L’undici novembre 2004 moriva in un ospedale francese il leader palestinese Yasser Arafat, il sette settembre 2005, neppure un anno dopo, moriva Moussa Arafat, il cugino del noto Yasser. La differenza è che Moussa non morì in un ospedale transalpino ma a Gaza. Come? Si trovava a casa sua col figlio, e attorno alle 5 del mattino una colonna di mezzi con una ottantina di uomini armati assaltò la sua abitazione, lo trascinò fuori e lo giustiziò, risparmiando il figlio. I responsabili furono i cosiddetti “Comitati Popolari di Resistenza”, un movimento radicale formato da ex membri di Fatah (il partito dei defunti Arafat), da ex Hamas (la frangia politica radicale opposta a Fatah che non riconosce Israele) e dalle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (specializzati in attacchi terroristici e, a dispetto del nome, di matrice laica e nazionalista), più altre fazioni. Con la morte di Moussa si chiudeva un capitolo per la spartizione del potere a Gaza dopo il ritiro di Israele dalla Striscia, e veniva così eliminato l’ultimo architrave dell’equilibrio politico creato da Yasser Arafat. La versione ufficiale fornita dagli esecutori del delitto fu che il cugino di Yasser, capo della sicurezza di Gaza, si era reso partecipe di svariati atti di corruzione e mai inquisito dall’ANP, in quanto protetto dal noto parente. Anche nell’ottobre 2004, un mese prima della morte del leader palestinese, Moussa fu oggetto di un attentato tramite un autobomba, da cui uscì illeso. Appare dunque chiaro che nello stesso anno erano ampiamente presenti dei piani per la sostituzione del potere degli Arafat, e che tali piani non avevano Israele come origine. Successivamente, il moderato Abu Mazen di Fatah propose una inchiesta per appurare le varie responsabilità attorno all’uccisione di Gaza, ma finì presto nel dimenticatoio. Inoltre, come noto, dal 2007 in poi Hamas assunse il controllo della Striscia, impegnandosi fin dal 2006 in una guerra civile contro Fatah, causando centinaia di vittime in ambo gli schieramenti, ed in cui il partito di Abu Mazen venne accusato del tentativo di assassinare il leader di Hamas Isma’il Haniyeh.
Due eventi relativamente contemporanei hanno quindi determinato la variazione degli equilibri interni dell’ANP: la morte di Arafat e del suo cugino (responsabile della sicurezza), ed il ritiro israeliano da Gaza.
Chi aveva interesse ad eliminare il leader della resistenza palestinese?
Stando ai fatti, tutti e nessuno. Potenziali nemici erano presenti sia in Israele, sia dentro la stessa ANP, sia in altri Paesi islamici, come l’Iran e la Giordania. Non dimentichiamoci che la vecchia rottura fra i vertici palestinesi e la monarchia giordana avvenne già all’indomani della fine del panarabismo dell’era di Nasser in Medio Oriente, e fu causata dal conflitto che costrinse la vecchia OLP di Arafat a trasferire il suo quartier generale dalla Giordania al Libano. Fra gli anni ’60 e ’70 i guerriglieri palestinesi tentarono di rovesciare la monarchia senza successo, e furono espulsi dal Paese. Nel ’74 tuttavia la Giordania rinunciò definitivamente alla Cisgiordania riconoscendo i diritti dell’OLP, ed in seguito la politica regia verrà contrassegnata dai tentativi di mediazione con l’occidente per la vertenza palestinese e sui problemi riguardanti le dispute per i confini. Può aver avuto un ruolo nel mutamento di forze in seno all’ANP?
Per quanto riguarda le argomentazioni a carico dell’Iran dobbiamo risalire alle dichiarazioni del generale Amin al-Hindi (già leader di “Settembre Nero”) del 1995. Fu il responsabile del controspionaggio palestinese, ed in una intervista pubblica affermò che l’intelligence iraniana aveva un piano per eliminare Yasser Arafat, in quanto a Teheran non veniva condiviso il piano di pace che stava prendendo corpo fra l’occidente, Israele e i palestinesi dopo gli Accordi di Oslo, basato sulle garanzie di stabilità interna dei vari gruppi armati offerte da Arafat, e che in caso di esito positivo avrebbe mutato i rapporti di forza nell’area, a possibile svantaggio della stabilità del regime iraniano. Secondo al-Hindi, l’Iran avrebbe potuto realizzare l’assassinio tramite il gruppo mercenario di Abu Nidal, specializzato in attentati di vario tipo anche nel suolo europeo. Recentemente è stato sostenuto che la morte di Arafat avrebbe persino aiutato l’Iran a distogliere temporaneamente gli sguardi della Comunità Internazionale dal suo piano di sviluppo del nucleare. Oggi sappiamo che probabilmente Arafat è stato assassinato tramite l’inoculazione di Polonio 210, una sostanza radiologica ampiamente diffusa, non solo in occidente, e quindi anche nella disponibilità israeliana, ma sopratutto in Asia dalla Russia e dai suoi alleati mediorientali, fra cui l’Iran. Il prodotto è ampiamente riproducibile dai laboratori di qualsiasi Stato munito di energia nucleare, è presente nel mercato nero dei Paesi dell’Europa orientale, e balzò alle cronache per la prima volta nel 2006 con la morte di Litvinenko, un ex agente segreto russo passato agli inglesi e per la cui morte si sospettò il Cremlino. Esperti russi hanno tuttavia escluso la possibilità di un assassinio di Arafat tramite Polonio 210, e ciò dovrebbe indurci a valutare se dietro tali affermazioni vi siano scopi politici tendenti a coprire precise responsabilità. Ma persino la Francia (per il suo rinnovato investimento nell’area) ed i Paesi del Golfo non sarebbero estranei a questo mistero, compresa l’Arabia Saudita, la quale avrebbe potuto agire per disinnescare il principale baluardo politico dell’ANP che aveva ramificazioni con Teheran, al fine di indebolirne la sua influenza nell’area. Siamo pertanto in un contesto dove non è facile individuare il confine fra alleati ed avversari, in particolare nel momento in cui si osserva la galassia delle organizzazioni armate filo-palestinesi, che godono di sponsor in vari Paesi arabi, talvolta avversari fra loro.
Abbiamo visto che sia nelle lotte intestine all’ANP, sia in passato in Giordania e sia a Teheran ed in terzi Paesi erano presenti forze interessate a smantellare l’equilibrio politico costruito dagli Arafat, e debolmente ereditato dal suo successore Abu Mazen, che non ha potuto conservare l’amministrazione di Gaza dopo il disimpegno dell’IDF. Veniamo quindi all’indiziato principale di questo omicidio politico secondo quella parte di opinione pubblica occidentale tendenzialmente di sinistra, cioè Israele. Senza scordarci che la geopolitica non risponde ad argomentazioni di natura emotiva, se osserviamo le politiche del processo di pace intentate da Tel Aviv negli anni che precedono la morte di Arafat, il suo presunto coinvolgimento nell’assassinio del leader palestinese è tutt’altro che scontato, perché vi sono ragioni sia contro che a favore di una eventuale azione ai danni dell’ANP. Suddividiamo quindi il campo delle ipotesi fra i falchi dell’amministrazione Sharon dell’epoca e le colombe. A loro volta, anche i falchi possono essere divisi in due categorie, con argomentazioni diverse fra loro: secondo alcuni osservatori l’uccisione di Arafat sarebbe maturata fin dal 2002, con l’insediamento di Meir Dagan al Mossad, nominato dall’ex premier Ariel Sharon. Ma è nel 2004 che dobbiamo concentrare le nostre attenzioni, perché quell’anno fu una data storica per la distensione fra palestinesi e israeliani. Lo Stato ebraico avviò il ritiro unilaterale da alcune zone della Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, non seguito, tuttavia, da azioni concrete da parte palestinese, in particolare con l’auspicata cessazione dei lanci di razzi verso Israele. A questo fine si sarebbero potute sviluppare tre diverse correnti di azione per risolvere il problema: da una parte i falchi avrebbero individuato nell’eliminazione di Arafat l’unico sistema per rimuovere un personaggio che non appariva più in grado di guidare l’ANP nel processo di pace, al fine di favorire elementi più moderati (fra cui il successore Abu Mazen). Il confinamento alla Muqata’a di Ramallah a cui fu sottoposto gli ultimi anni Arafat da parte di Israele, dopo gli attentati di Gerusalemme, non fu che un tentativo per esercitare una pressione sul leader per costringerlo a prendere posizione contro le fazioni più radicali e ostili al processo di pace. Ma ciò non giustifica la volontà di un assassinio politico, e probabilmente il confinamento fu l’unica azione possibile individuata dalle colombe dell’amministrazione Sharon. Se falchi e colombe si trovavano quindi d’accordo al confinamento del leader dell’ANP (ma dividendosi dopo sulla sua sorte), una terza corrente più aggressiva, dei falchi, avrebbe puntato all’uccisione di Arafat col semplice obiettivo di bloccare il processo di pace e perpetuare la sovranità fattuale di Israele nei territori che da lì a breve sarebbero passati sotto il diretto controllo dell’ANP. In questo modo la scomparsa di Arafat avrebbe spezzato ogni equilibrio tenuto in piedi dalla sua componente carismatica e clientelare, portando il caos dentro l’istituzione palestinese. Tale argomentazione tuttavia non risponde a chiari obiettivi di natura geopolitica, e al contrario, avrebbe spinto ad un maggiore isolamento internazionale il prestigio di Israele. La tesi sostenuta dagli accusatori di Sharon per la morte di Arafat infatti non tiene conto che è stata proprio l’amministrazione di centrodestra, dietro accordi con l’ANP, ad avviare il disimpegno dai territori palestinesi, perdendo così anche un avamposto militare indispensabile alla sua sicurezza, per contenere il radicalismo di fazioni fondamentaliste come Hamas (non a caso Israele è dovuta intervenire sanguinosamente a Gaza fra 2008 e 2009 durante l’operazione “piombo fuso”, attirandosi numerose critiche internazionali). A favore delle colombe del governo Sharon rimane infatti la tesi che, nel bene e nel male, Yasser Arafat fosse l’unico in grado di rallentare – anche se insufficientemente – le spinte radicali, nonché l’unico interlocutore possibile per lo Stato di Israele, capace di mediare fra le varie sensibilità dell’Autorità Nazionale Palestinese.
In conclusione, non esistono argomentazioni abbastanza solide per sostenere le responsabilità di un preciso Paese piuttosto che un altro per la morte di Arafat, mentre appare più solida la pista araba rispetto a quella israeliana, soprattutto alla luce dei fatti che hanno determinato la violenza con cui è mutato il potere nell’ANP negli ultimi mesi del 2004, fino alla guerra civile Fatah-Hamas. E salvo qualche improbabile autodenuncia da parte dei reali mandanti e degli esecutori di questo omicidio (perché con tutta probabilità non si trattò di una morte naturale), è certo che per lungo tempo quanto sia realmente accaduto rimarrà un mistero.
Adriano Bomboi.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE – Natzionalistas Sardos
Ma che cosa dici? Un interno articolo per escludere le responsabilità, abbastanza probabili, dell’unico vero nemico che aveva motivazioni serie: Israele, l’Occupante. Questo tuo articolo rivela uno strano allineamento con la potenza coloniale e occupante del suolo palestinese.
Non si sa chi abbia ucciso Arafat, per cui non si sa se Israele sia “innocente”. Essendo uno stato che è governato da terroristi e usa gli omicidi mirati da sempre, per eliminare i suoi avversari politici e i leader del popolo di cui ha occupato illegalmente, o comunque in modo coloniale, la terra, diciamo che ci sono buoni motivi per sospettarlo anche di questo omicidio, che sarebbe uno dei tanti in una storia tutta segnata da massacri, pulizie etnica, razzismo e ingiustizie varie. Sostenere Israele è comunque immorale, a parer mio.
Alessandro, la tua mi pare una posizione ideologica. Nell’articolo si vagliano alcuni fatti e si giunge ad alcune conclusioni, che come detto, non sono definitive. La morte di Moussa Arafat poco tempo dopo quella di Yasser è un chiaro sintomo del contesto che purtroppo anima l’ANP (e che magari è anche parte in causa con i continui arresti del processo di pace).