Chiudende, pastori, fusione perfetta e statalismo: alle origini della dipendenza

Cari Lettori, l’articolo sui fattori positivi scaturiti dall’epoca delle Chiudende (vale a dire l’arrivo della proprietà privata, che generò una crescita delle esportazioni e dunque, favorì un impiego del capitale destinato a razionalizzare la produzione primaria estendendola dalla sussistenza al commercio) ha riscontrato, fra i vari, commenti positivi ma anche critici. Soprattutto alla luce della smitizzazione della figura del pastore, incarnante, secondo certa letteratura, “un baluardo popolare dedito alla difesa dal dominatore esterno”, la cui azione in realtà si è spesso saldata a delle pratiche di conservazione non sempre idonee ad un aggiornamento del modello socio-economico del territorio.
Ricordiamoci a tale proposito che i pastori furono i principali alleati dei feudatari durante uno degli eventi più importanti della storia della Sardegna: i moti rivoluzionari di fine settecento. Il loro contrasto all’opera di Giovanni Maria Angioy fu dovuto essenzialmente alla commistione degli interessi sul bestiame allora garantiti dal sistema feudale, e sopravvissuti fino all’adozione delle privatizzazioni delle terre, introdotte grazie all’ala riformista del governo sabaudo. Se agli storici spetta il compito di riportare fenomeni e vicende del passato, a noi spetta il diritto di sviluppare delle riflessioni politiche, utili per il presente e libere dalla mitologia che ha attorniato l’epoca della Sardegna ottocentesca, tanto da parte sardista-indipendentista, tanto da parte di chi guardò con favore ad ogni iniziativa del governo centrale a carico dell’isola.

Le Chiudende, che causarono danni e benefici, furono una fase estremamente complessa del nostro passato, perché le loro conseguenze riportarono alla luce un fenomeno tristemente noto fin dall’epoca asburgica, ma generando nuovi fattori di dipendenza, stavolta verso l’Italia unita. Il primo aspetto riguarda il banditismo, il secondo riguarda l’economia, entrambi speculari all’azione politica dell’epoca. E’ prassi comune infatti ritenere che la delinquenza diffusa dei secoli scorsi venne generata dalle disparità emerse con la privatizzazione delle terre, costringendo alla macchia una indefinita quantità di persone a cui era venuta meno l’opportunità di auto-sostentarsi grazie all’uso delle terre pubbliche, poi drasticamente ridotte a favore dei privati. Si tratta con tutta evidenza di una lettura della storia viziata da una pregiudiziale ideologica, la quale non tiene conto di due importanti fattori che consentivano al crimine di perpetuarsi in modo endemico. Il primo fu il protezionismo italiano, e vedremo perché, il secondo era dato dall’utilizzo clientelare del crimine come strumento di affermazione politica dei signorotti locali. Le bande locali, a cui in genere corrispondevano uno o più capi carismatici, sopravvivevano alla legge anche grazie al clima di connivenza e impunità con le piccole autorità, che spesso se ne servivano come strumento di regolazione del proprio potere nel territorio e per la soluzione di determinate vertenze. Possiamo paragonare questa prassi a quella delle odierne milizie mercenarie, in Stati dove operano in parallelo al potere ufficiale delle istituzioni, e ne sono talvolta conniventi, benché fuorilegge nei metodi usati per il raggiungimento dello scopo. In un certo senso si ha così una prosecuzione dei bizantinismi armati già conosciuti all’epoca della dominazione iberica, quando nobili e feudatari locali non esitavano a ricorrere al crimine per la difesa del proprio particolarismo (vedere anche Manconi, 2010). Recentemente l’autore Andrea Piga nel suo testo ha coniato il termine di “nobili briganti”.
Le Chiudende quindi non furono un male a causa della diffusione della proprietà privata, ma perché la sua applicazione, gestita in spregio al territorio e da voraci classi dirigenti locali, ideologicamente eterodirette, fece un uso strumentale del malessere dovuto all’ineguale e repentina applicazione della novità, che essa stessa contribuì a consolidare. I politicanti locali dopotutto non erano che gli eredi diretti del vecchio nobiliarismo feudale del passato. A fine ottocento il protezionismo doganale italiano contro la Francia, che causò il crollo dell’export Sardo, non solo consentì a tale banditismo di perpetuare le condizioni dell’arretratezza economico-sociale in cui si era formato (da notare, i detrattori in toto delle Chiudende ignorano che questi incrementò dopo il 1888), ma portò anche il crollo di vari piccoli istituti di credito. Finiva così in quegli anni la “fase liberale” della Sardegna, dove vi erano le premesse per la formazione di una vera borghesia nazionale Sarda, prima che italiana. Il fattore economico della dipendenza infatti fu determinato anche dal mancato accumulo di capitale, con la chiusura delle banche, necessarie ai tanti piccoli imprenditori dell’agro-allevamento, che videro così assottigliarsi ogni minimo margine di manovra. Fu in tale contesto che nacque il cosiddetto pecorino romano, perché privati di capitali, privati dallo Stato del mercato principale su cui operare, i nostri primi imprenditori, quelli che non fallirono – senza considerare coloro che non poterono più fare impresa – furono costretti a cedere i propri prodotti all’industria di trasformazione italiana, subordinandosi in qualità di meri fornitori di materia prima. L’isola fu invasa da imprenditori caseari romani e napoletani, i quali rivendevano come loro il prodotto Sardo, acquistato a prezzi stracciati, verso il nord America. In buona sostanza, la sedicente età aurea dei Sardi non terminò con le Chiudende e la fine del “comunitarismo terriero” nei primi decenni dell’ottocento (l’arretratezza culturale ed economica caratterizzava ampiamente la fase feudale della Sardegna), ma si arrestò alla fine dello stesso secolo, grazie allo statalismo della sinistra storica al governo, che interruppe la breve fase di espansione dei nostri commerci con l’estero. La subordinazione fu definitivamente consolidata grazie all’assimilazionismo prodotto dalla scuola italiana, che tentò, spesso con successo, di eradicare ogni minima alterità culturale residua, in particolare quella linguistica, a favore degli interessi italiani. Non solo quindi l’amministrazione italiana danneggiò la nostra economia, ma tramite il nazionalismo italiano alimentò un prestigio sociale che mirava a garantire il progresso, o presunto tale, a coloro che si fossero adeguati alle direttive provenienti da oltre-Tirreno, a prescindere dalla loro effettiva utilità. Questa dinamica in tempi recenti l’abbiamo trovata persino nelle dispute dei primi anni 2000 sul Parco del Gennargentu, quando i pastori si opposero al progetto del parco (ma senza articolare una efficace proposta alternativa, esprimendosi a difesa dello status quo), mentre i fautori locali del parco non si interrogarono se le modalità di attuazione dell’iniziativa, decise da Roma, fossero opportune o meno, a riprova della scarsa cultura autonomistica e federalistica sedimentata nel nostro tessuto sociale, e dunque nella nostra classe dirigente, oltre che nel mondo accademico.
Tuttavia per capire meglio le ragioni della dipendenza bisogna fare un passo indietro e tornare ad un passaggio fondamentale della Sardegna ottocentesca. Perché i Sardi non si opposero al protezionismo italiano nonostante gli ingenti danni subiti? Perché nel 1848 diedero il via libera alla “fusione perfetta”, e senza più un Parlamento Sardo, avevano perduto quell’autonomia che consentiva loro di esercitare qualsiasi forma di dissenso e di proposta. Fin dai primi anni della fusione il Parlamento subalpino ospitava solamente 24 deputati Sardi, eletti da appena 6.000 persone (nel 1882 con la riduzione dei collegi uninominali vennero dimezzati, rappresentando solamente il 5% degli interessi della popolazione Sarda). Solo pochi eletti, come Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni, fecero presente, inascoltati, che la questione Sarda andava distinta da quella meridionale (su cui da lì a breve si sarebbe sviluppata una discreta letteratura). Ma i problemi della fusione si manifestarono immediatamente. Poco dopo l’abolizione del Parlamento di Cagliari, il governo centrale inviò nell’isola La Marmora al fine di risolvere la crisi emersa con le Chiudende ed il generale quadro di malessere, e questi si limitò essenzialmente ad applicare l’imposta fondiaria, che tartassò ulteriormente le finanze dei Sardi. Fu una tassazione che venne calcolata sulla base della realtà fondiaria piemontese (fu il primo vero effetto fiscale della fusione centralista), e non sulla base della realtà fondiaria Sarda (allora con livelli di produttività ed estensione differenti dal Piemonte), falcidiando così la già esigua capacità contributiva dei nostri produttori e accentuandone la crisi (Floris, 2004). Il problema delle Chiudende invece proseguì anche nella seconda metà dell’ottocento, poiché molti terreni rimasero vacanti e presto assorbiti da diversi Comuni e vari amministratori comunali, a spese dei propri cittadini, ed il cui abuso si risolse a favore degli speculatori esterni del legname. Ma non bastava: nuove tasse, come quella sul macinato e sui fabbricati, aggravarono la crisi a ridosso dell’avvio del protezionismo italiano (i cui esiti per la Sardegna potrebbero essere paragonati per gravità alla recessione che investì gli USA dopo il crollo di Wall Street del 1929). Fra il 1873 e il 1878 oltre 20.000 Sardi persero le proprie imprese, e col successivo crollo delle banche causato dallo statalismo, aumentò vertiginosamente il fenomeno dell’usura. La massa dei dipendenti di tali aziende, non sempre a conduzione familiare, finì sulla strada (i figli di questa generazione finiranno per buona parte nel massacro delle due guerre mondiali del novecento). Il clima di rivolta e il desiderio di tornare a “su connottu” (spiegabile con l’aforisma “si stava meglio quando si stava peggio”) può essere compreso osservando il complessivo sentimento di sfiducia popolare verso le istituzioni, che venivano considerate incapaci di affrontare con equità i problemi che avevano creato. La classe più colpita, al di là della massa popolare, fu la borghesia mercantile, e che all’alba del 1848, al pari degli ambienti universitari ed elitari dell’isola, aveva sostenuto la fusione perfetta col Piemonte. Fu un suicidio. All’epoca il ceto mercantile isolano riteneva che entrare a pieno titolo nell’orbita piemontese avrebbe incrementato i volumi dei traffici commerciali della Sardegna, il fiscalismo ed il protezionismo italiano invece non solo non apportò lo sperato incremento dei traffici, ma minò dalle fondamenta anche quelli avviati nell’epoca successiva alle Chiudende, a vantaggio di quelli peninsulari.

Osservando i fatti col senno di poi, dal 1820 al 1890, abbiamo avuto una monarchia che puntò ad accelerare le riforme dell’isola per metterla al passo coi tempi, ma privilegiando l’area piemontese del Regno e di fatto dando luogo a pratiche di stampo coloniale. Con ogni probabilità i Savoia desideravano, seppur riluttanti nei metodi, portare il proprio Regno al livello delle maggiori monarchie europee, sulla base di misure economiche allora imprescindibili per avvicinarsi alla modernità. Per contro, tale volontà si attuò attraverso un ampio ricorso al compromesso con tutte quelle sacche amministrative interessate alla conservazione dei rispettivi privilegi, cui faceva da sfondo una corrente letteraria di stampo razzistico (fra le ultime, pensiamo alle opere di Alfredo Niceforo), che vedevano i Sardi come “popolo da educare”, anche con la forza, alla modernità. Fu in tale quadro ad esempio che per il banditismo non si trovarono affatto le sue cause essenziali nell’interventismo statale, e nella mala amministrazione locale, ma si rispose unicamente con la repressione (pensiamo alla famosa “caccia grossa” del 1899, immortalata dalla controversa opera di Giulio Bechi, spinta dall’azione del ministro Pelloux). Mentre nulla venne fatto per arrestare la drammatica devastazione dei boschi Sardi.
In tutto questo, la poesia popolare, certamente priva degli strumenti contemporanei di osservazione del malessere dell’epoca, innalzò la figura dei banditi-pastori, presunti paladini del popolo, ma in realtà spesso semplici e volgari delinquenti al saldo di qualche signorotto senza scrupoli. Il Don Rodrigo dei Promessi Sposi, con i suoi scagnozzi, rappresentati da Manzoni, sono certamente l’opera più nota che illustra questo tipo di realtà, allora tristemente concreta. Comprensibile anche il rinnovato conservatorismo dei pastori (che durante l’affermazione delle Chiudende si erano allineati allo sviluppo del commercio agricolo), perché nel momento in cui arrivò il protezionismo italiano e non poterono più beneficiare dei risultati avviati grazie alle Chiudende, ripudiarono nel loro insieme tutte le riforme presentate dalle istituzioni, compresi gli aspetti positivi delle stesse.

E i pastori odierni? Come già affermato, anche oggi diverse fasce di pastori rimangono legati a logiche clientelari e di mera assistenza che impediscono loro di agganciare pratiche di sviluppo della nostra industria agroalimentare. Da un lato la PAC europea, dove contro il libero mercato, aziende sovvenzionate dell’est, e non solo, a spese dei contribuenti, fanno concorrenza alle nostre produzioni; dall’altro la sudditanza clientelare verso il politicante locale, colui che materialmente fa pressioni affinché il singolo allevatore riceva denaro pubblico in caso di calamità naturali alla sua azienda, senza valutarne le cause di fondo. Nella fattispecie, pensiamo a patologie come la peste suina, che potrebbero essere circoscritte anche grazie al contenimento del bestiame lasciato allo stato brado, impedendo la veicolazione del virus. Il modello socialdemocratico ed interventista, in cui il clientelismo si fonde con il principio della redistribuzione e dell’assistenza, fallisce poiché produce soggetti non interessati ad investire in prevenzione ed innovazione ma unicamente interessati ad incassare denaro pubblico, a prescindere dalla qualità e dal volume della propria produzione. Al contrario, l’adozione di provvedimenti seriamente liberali e identitari (defiscalizzazione, differenziazione delle fonti energetiche, sburocratizzazione, promozione di marchi territoriali a chiara connotazione linguistica e culturale, non “pecorini romani”, ecc.) separerebbe i nostri piccoli imprenditori del settore primario dalla mediocrità politica e dalla subordinazione economica. La necessità dunque è quella di sviluppare meno pubblico e più privato, più territorio e meno Stato. Perché questa è l’unica lezione politica che possiamo trarre dalla nostra storia. Una lezione forse poco chiara anche al nostro indipendentismo.

Adriano Bomboi.

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