Comprare solo prodotti Sardi? Sfatiamo il mito dell’autarchia e affrontiamo la realtà
Di Adriano Bomboi.
Si stima che circa l’80% dell’agroalimentare venduto in Sardegna arrivi dall’esterno. E non ci vuole molto per comprendere che il saldo della nostra bilancia commerciale nel settore è estremamente negativo. Come possiamo invertire la tendenza? Nel corso degli anni sono state già avanzate varie proposte, alcune organizzate, altre meno. Fra le principali, c’è chi ha lanciato la filiera corta, per avvicinare quanto più possibile il consumatore al luogo di produzione, chi ha proposto nuovi marchi ad hoc, e c’è chi ha proposto di acquistare sempre e comunque prodotti Sardi. Ma siamo sicuri che queste siano le uniche soluzioni possibili per un problema tanto complesso? Risolverlo significherebbe analizzare quali fasce di prodotti vengono importate di più, e capire perché i nostri produttori non riescano a recuperare posizioni di mercato, naturalmente anche a vantaggio dei consumatori. Perché se i nostri produttori si trovano in una situazione di minorità significa che esiste un problema di competitività. In cosa consiste? Purtroppo in cinque ordini di problemi: di quantità, di qualità, di costi, di cultura e naturalmente di prezzi. Per quantità e costi possiamo fare l’esempio della carne suina. E’ noto che la maggiore azienda di trasformazione Sarda del settore importa abitualmente grandi quantità di carne dalla penisola (e non solo) per confezionare i propri insaccati. Il problema non è dell’azienda che non acquista carne Sarda a sufficienza ma del mercato locale, che non produce suini di grossa taglia destinati alla lavorazione industriale. E perché non si producono? Per una serie di ragioni, in parte perché manca una diffusa cultura manageriale da parte degli operatori del settore. In parte perché esiste un diffuso nanismo aziendale (con imprese per lo più a conduzione familiare, dalle limitate dotazioni finanziarie per l’investimento). Ed in parte perché esistono costi di gestione molto alti. Pensiamo alle derrate alimentari per il bestiame, all’energia elettrica necessaria ed anche al carburante per i trasporti. Per non parlare della burocrazia. A che pro fare impresa in un contesto simile? Forse per alimentare il parassitismo statalista romano?
Sia chiaro, nessuno intende importare nell’isola un modello di allevamento intensivo sulla falsariga della Germania o dei Paesi Bassi, con bestiame gonfiato a suon di medicinali, ma incidere sui fattori che limitano l’espansione del nostro mercato significa quantomeno richiedere alla politica che aggredisca i due maggiori ostacoli che si frappongono fra i produttori ed il mercato: il fiscalismo (a partire dalla rimozione delle accise sull’energia), e la burocrazia. A questi problemi si sommano anche quelli relativi alla qualità. Al riguardo il caso della peste suina è emblematico, perché ha consentito alla politica di aggiungere un terzo problema: l’assistenzialismo. Come noto la malattia in questione si diffonde costantemente a causa del pascolo brado, dove gli allevatori non si occupano di circoscrivere il bestiame per prevenire l’infezione. E sapete perché non ci si occupa di recintare i terreni dove è possibile farlo? Perché sinora la politica ha puntato a sovvenzionare i suini ammalati (e perduti), incentivando così una serie di produttori disonesti a ricevere denaro pubblico a prescindere dagli introiti della propria attività. Paradossalmente oggi i Riformatori Sardi (liberaldemocratici?) hanno proposto di insistere con le dannose sovvenzioni, mentre i RossoMori (socialisti?), di rimuoverle. E ben venga lo spirito liberale di questi ultimi. C’è da augurarsi che in Regione i politici escano dalla tentazione di offrire denaro pubblico a chi non è in regola per invitarlo a farsi da parte (sarebbe il miglior modo per veicolare la peste anche oltre i confini Sardi).
Al di là di questi limiti, chi è ben organizzato, nonostante gli ostacoli creati dalla politica, in questo ed altri ambiti dell’agroalimentare riesce ad entrare anche nella grande distribuzione (vedere 3A di Arborea). E niente ci vieta di pensare che in condizioni più idonee i nostri gruppi più prestigiosi non possano espandersi ulteriormente verso nuovi mercati, crescendo pure in quello locale (in questa sede eviterò di parlare del pecorino “romano”, che richiederebbe pagine su pagine di commenti). Non a caso la filosofia che deve ispirarci non può preoccuparsi del fatto che alimenti come il Parmigiano Reggiano vengano pubblicizzati e venduti anche in Sardegna, ma deve preoccuparsi di far si che aziende come la 3A possano espandersi nello stesso segmento di mercato in Emilia Romagna e nel mondo.
Infine abbiamo la questione dei prezzi, in una parola, del commercio. Se in Corsica sono maggiormente protettivi persino nell’acquisto delle acque minerali, in Sardegna abbiamo una discreta dose di commercianti che pur potendo piazzare prodotti locali preferisce avvalersi di quelli esterni. La colpa non è sicuramente del dettagliante e neppure del grossista, ma del basso volume di produzione di una determinata fascia di prodotti, che quindi finisce inevitabilmente per incidere sul prezzo finale che dovrebbe essere proposto al consumatore per poter avere il giusto introito monetario dalla transazione. Notoriamente la produzione di scala si avvale di costi inferiori e dunque anche di prezzi al dettaglio più competitivi. Invece per i commercianti che usano denigrare i prodotti Sardi, non impediti alla vendita da prezzi o da eventuali contratti con i propri brand o canali di distribuzione, come consumatori abbiamo l’arma del boicottaggio. A tale idiozia basterebbe semplicemente rispondere con l’acquisto da commercianti più virtuosi.
Insomma, se per i motivi sopra esposti non offriremo ai nostri produttori la possibilità di investire sulla crescita della produzione, non dovremmo stupirci se i consumatori preferiranno la quantità d’importazione alla qualità che i nostri commercianti potranno continuare ad esporre, in quanto meno dispendiosa. E nonostante i nostri vini, i nostri formaggi od i nostri prosciutti non abbiano nulla da invidiare anche ai prodotti migliori della concorrenza (abbiamo addirittura il pane come vera e propria opera d’arte). Ma ecco la parola magica: concorrenza. Serve proprio per far si che si abbassino i prezzi a favore del consumatore, e per migliorare (dove possibile) un determinato prodotto. Anche in Sardegna ciò sarebbe possibile se riducessimo gli squilibri che abbiamo visto, ma scordiamoci l’autarchia. I tempi del colbertismo sono finiti. Perché se domani i Sardi non comprassero più prodotti realizzati fuori dalla Sardegna, la nostra attuale produzione non crescerebbe in termini significativi, mentre i prezzi e la qualità non sarebbero stimolati al meglio, a tutto svantaggio degli utenti.
Il ragionamento non si ferma qui. Esistono ancora altri problemi culturali che si sommano a quello politico. Infatti dobbiamo considerare che persino l’odierna concorrenza ha un aspetto negativo. Il paradosso è dovuto alla PAC agricola europea, le cui sovvenzioni sono pilotate per buona parte verso le aziende e le multinazionali europee – ma anche italiane – più forti, e che finiscono per fare concorrenza sleale ai nostri imprenditori agroalimentari, meno assistiti (e anche meno informati sugli strumenti finanziari disponibili).
Un terzo problema culturale attiene alle basi morali della nostra società, che per lungo tempo è stata allevata secondo canoni assistenziali e paternalistici. Al punto che numerosi giovani (e meno giovani) hanno rinunciato ad investire nella campagna. E non solo a causa dell’oppressione fiscale italiana, ma a causa di una sfrenata corsa verso il “posto pubblico”. Dove si ritiene che prendere uno stipendio a spese della collettività sia l’unico sistema dignitoso per tirare a campare. Si tratta di una miseria intellettuale che in realtà comprime il nostro mercato del lavoro ed il nostro tessuto aziendale, creando un contesto dove non si produce più ricchezza ma si consuma quella esistente.
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