Arriva il referendum catalano per l’indipendenza. Che differenze da Scozia e Sardegna?
Barcellona ha deciso, il presidente dell’Autonomia catalana ha confermato il 9 novembre come data nella quale dovrebbe tenersi il referendum per l’indipendenza della nazione dalla Spagna. Il 91,6% dei municipi catalani si è espresso a favore della consultazione referendaria in fase di organizzazione, e sostenuta da tutti i maggiori partiti nazionalisti e indipendentisti che governano la comunità.
Ma cosa differenzia il caso catalano da quello scozzese e da quello Sardo? Non poco. E non ha torto Omar Onnis quando invita gli indipendentisti a non relativizzare contesti diversi, ma la loro osservazione appare comunque utile allo sviluppo di considerazioni destinate al riconoscimento dei limiti che riguardano le diverse proposte indipendentiste.
Va innanzitutto ricordato che la Catalogna non è un Paese povero. A differenza di quanto sostengono diversi osservatori italiani, l’indipendenza non è richiesta solo da comunità in difficoltà economiche (per conquistare maggior benessere contro lo Stato centrale), ma anche da comunità benestanti (e che potrebbero svilupparsi meglio senza lo Stato centrale). Perché partecipare all’interdipendenza del mondo globale non significa delegare tutte le materie ad un organo sovranazionale (come ad esempio l’Unione Europea), ma amministrarne alcune direttamente senza l’intermediazione di un governo centrale.
Non a caso, rispetto alla Scozia, l’indipendentismo catalano presenta notevoli conquiste riformistiche sia in campo politico che culturale. Ad esempio, mentre il fallito referendum scozzese è stato sostenuto quasi esclusivamente dallo Scottish National Party (secondo una propaganda di impostazione socialdemocratica), l’indipendentismo catalano è maggiormente pluralista, e spazia sia dai nazionalisti moderati del CiU fino alla sinistra indipendentista di ERC. Altro punto di forza rispetto al caso scozzese è che i catalani non hanno puntato solamente su tematiche economiche ma anche culturali, grazie a delle politiche linguistiche che negli anni hanno saputo contrastare il centralismo di Madrid, alimentando maggior coesione politica all’interno del proprio tessuto sociale.
Ma il referendum catalano, a differenza di quello scozzese, presenterà anche una terza via: il federalismo, quello vero. Il primo quesito chiederà al popolo se desidera costruire uno Stato, il secondo chiederà se il nuovo Stato dovrà essere indipendente o federato con una Spagna più piccola. In questi termini l’esito referendario non aprirebbe immediatamente le porte all’indipendenza ma a dei negoziati fra Barcellona e Madrid.
Una delle ragioni per le quali si è scelta questa impostazione riguarda un’altra fondamentale differenza tra Spagna e Regno Unito. Perché il secondo, a differenza della prima, riconosce le nazioni al proprio interno e il loro diritto di tenere vincolanti referendum sul proprio destino. La Spagna invece, che ha una Costituzione rigida, proprio come quella italiana, vieta allo Stato di dividersi, impedendo ai popoli al loro interno il diritto di autodeterminarsi. Eppure oggi Stati piccoli prosperano quanto quelli grandi, e con il vantaggio che non impiegano il denaro dei contribuenti per partecipare a guerre su scala globale.
L’indipendentismo Sardo è profondamente indietro rispetto a tali considerazioni, sia perché non ha ancora conquistato la guida dell’amministrazione regionale, e sia, naturalmente, perché non ha fatto ordine nei temi economici e culturali con i quali ottenere consenso elettorale. E non perché sia privo di argomentazioni al riguardo, ma perché queste tematiche non vengono applicate nel quadro di un concreto progetto politico. Basti pensare che sul fisco sia indipendentisti che sovranisti Sardi parlano quasi esclusivamente della realizzazione di una Agenzia locale delle Entrate, tema importante ma non risolutivo. Perché la vera sovranità non consiste unicamente nel riscuotere i tributi, ma nello stabilire il livello degli stessi. Ecco perché il nostro indipendentismo non deve limitarsi a parlare di esazione ma anche di capacità di imposizione (che oggi rimane in capo allo Stato centrale).
Purtroppo un indipendentismo cresciuto quasi esclusivamente a sinistra risulta digiuno di alcune basilari argomentazioni liberali. Inclusi i sardisti e i sovranisti, secondo i quali ogni minimo problema sociale deve essere risolto facendo ricorso al denaro dei contribuenti. Bisogna comunque dare atto ad alcuni movimenti di aver effettuato nuove importanti aperture al riguardo: ad esempio il movimento A Manca pro s’Indipendentzia ha denunciato l’eccessiva pressione fiscale dello Stato. Mentre ProgReS, grazie alla sua rinnovata dirigenza politica, ha ricordato un altro dei temi di punta coi quali anche Sa Natzione ha argomentato le origini della dipendenza economica regionale: il vecchio protezionismo italiano, che falcidiò la nascente borghesia nazionale Sarda, asservendola agli interessi della penisola. Pensate che invece in Catalogna la borghesia locale ha maturato vari strumenti di difesa, ad esempio il loro nuovo Statuto autonomo distingue la titolarità dei brevetti industriali delle aziende catalane da quelle spagnole. Nella Sardegna dell’assistenzialismo e del fiscalismo, dove la ricerca e l’innovazione privata è praticamente inesistente, questo importante tassello sovranitario non ha ancora ragioni di esistere. Ma non meno importante sarebbe parlare di un Antitrust Sardo, contro i cartelli italiani dei trasporti, dell’energia e di altri settori spalleggiati dallo Stato.
Se l’indipendentismo Sardo intende crescere, deve contestare con forza la bufala secondo la quale “se tutti pagassero le tasse, se ne pagherebbero di meno”. Perché la storia della finanza pubblica italiana registra costantemente un aumento della spesa in parallelo all’incremento delle tasse. Significa che ad un aumento delle tasse non corrisponde una più equa distribuzione dei servizi, ma un maggiore sperpero del denaro pubblico incamerato dallo Stato. A favore dell’imponente tessuto politico, burocratico e clientelare italiano, che consuma la ricchezza di chi lavora e le opportunità di chi vorrebbe poterlo fare onestamente.
Ma sul versante linguistico e culturale come siamo messi? Mentre a Barcellona il governatore sfida Madrid, che non vuole riconoscere il referendum del 9 novembre, in Sardegna Pigliaru non riesce neppure a contestare la presenza di una base militare in eccesso contro l’arroganza del Governo Renzi. Volete che in un contesto del genere ci sia adeguato interesse nei confronti della cultura Sarda?
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