Articolo 18: il totem del politicantismo e del sindacalismo italiano

Di Adriano Bomboi.

Panem et circenses! In Italia è una costante. Quando la politica non intende trattare i temi concreti, distrae il popolo. Un tempo lo si divertiva, oggi lo si incanala verso dibattiti inutili rispetto alla sostanza dei problemi. Uno di questi dibattiti riguarda il destino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il quale, nel contesto normativo, si propone di garantire l’impiego – presso aziende sopra i 15 dipendenti – contro licenziamenti privi di valida giustificazione.
In realtà non esistono statistiche ad hoc capaci di illustrarci con chiarezza le ricadute dell’applicazione di questo articolo. Abbiamo solo tre informazioni di base con cui valutare il tema:

La prima è che la maggior parte del tessuto aziendale italiano (ed in particolare quello Sardo), è costituito dalla piccola e media impresa (con incidenza al di sotto dei 15 dipendenti). Di conseguenza l’art. 18 è pressoché inesistente nella nostra realtà economica locale. In tutta Italia, stando ai dati 2014 della CGIA di Mestre, la sua applicazione riguarda solamente il 2,4% del totale, pari a 105.500 aziende.

La seconda dipende dalla consapevolezza di valutare che nel Paese il problema del mercato del lavoro non dipende essenzialmente dalla necessità di ottenere figure professionali flessibili, ma dall’eccessiva pressione fiscale e burocratica, la quale rallenta i consumi, nonché lo spazio minimo di sussistenza della vita dell’impresa. Perché a fine mese, chi fatica a far quadrare i conti, assumerà collaboratori in nero (quindi comunque privi di diritti), oppure rinuncerà direttamente ad assumere dipendenti che non potrebbe pagare. Questo limite si muove in parallelo a quello dei consumatori, i quali, a loro volta, afflitti da un eccessivo prelievo fiscale, tenderanno a comprimere i loro acquisti, inducendo così le imprese a rallentare i propri standard produttivi (e di conseguenza rendendo inutile un incremento dell’occupazione). La risultante di questa spirale è che la precarizzazione del mondo del lavoro non dipende da chissà quale “malvagia deriva neoliberista”, ma dallo statalismo. La cui impostazione neo-keynesiana e socialdemocratica, piuttosto che ridurre il carico fiscale che grava sull’intero mercato, induce il politicantismo italiano ad orientarsi verso l’incremento di flessibilità dei lavoratori (i cui livelli di versatilità contrattuale sono già pressoché in linea con la media UE). Ma purtroppo, e su questo il sindacato tace, incrementando ulteriormente anche le tasse e la burocrazia (ben oltre la media UE, in rapporto alla qualità dei servizi erogati).

La terza informazione in nostro possesso rientra in quest’ultimo paradigma. Come ha recentemente ricordato lo storico Luigi Marco Bassani, citando l’esperienza dello studio di BG & Partners, sappiamo che per la giurisprudenza italiana non esiste una vera e propria causa di licenziamento legittimo. Vi sono casi in cui un magistrato ha riconosciuto colpevole di furto un lavoratore che è stato però reintegrato al suo posto dal giudice del lavoro. Idem assenteisti ed altri impiegati disonesti. Buona parte di queste vertenze finiscono in una sola direzione: vista l’impossibilità di poter recuperare il rapporto di fiducia fra imprenditore ed impiegato, il primo si ritrova obbligato a versare una cospicua remunerazione al secondo pur di potersene liberare, e non si parla di spiccioli. Adesso immaginate quali effetti produrrebbe questa dinamica se venisse attuata la fantasiosa proposta di alcune aree della sinistra italiana di estendere i presupposti dell’art. 18 alle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Se ogni commesso di un piccolo supermercato accampasse i medesimi diritti spettanti ad un operaio della FIAT, si produrrebbe il fallimento di numerose piccole imprese, che sarebbero costrette a spendere più di ciò che possono sopportare per far fronte ai guai con la “giustizia” del lavoro. Ecco perché l’art. 18 non solo non va esteso, ma va ridotto per evitarne tali distorsioni.

Dunque come si risolvono questi problemi? Naturalmente non ingabbiando sempre più il mercato, ma liberandolo dall’opprimente morsa statale. Il ceto politico italiano si orienta sulla flessibilità e non sulla riduzione del carico burocratico e fiscale poiché non intende intaccare i propri privilegi. Per questo Roma preferisce aggredire i veri produttori di ricchezza: sia le partite IVA che le fasce sociali più deboli (come i lavoratori, che non di rado, anch’essi, finiscono nelle maglie di imprenditori disonesti e tutt’altro che in crisi). Con in testa una speculare contrapposizione Governo-sindacati. Fondamentale quindi la riduzione del livello di tassazione, in presenza del quale anche l’evasione fiscale diventa giustificata, e dove non si aiuta realmente né l’impresa e né l’occupazione ad agganciare lo sviluppo.

- Anche su Sardegna Soprattutto.

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