Politica & Mercati: Crolla il prezzo del petrolio. Ma non in Italia e in Sardegna
Di Adriano Bomboi.
Sui mercati internazionali il prezzo del petrolio al barile è crollato a 70 dollari. La situazione avrà numerose ripercussioni nell’economia e nella politica internazionale ma ben poche in Italia, ed a partire dal costo alla pompa della benzina. Infatti l’incidenza sull’importo complessivo della materia prima si attesta attorno al 30%, mentre tra costi e tasse fisse dello Stato si copre addirittura il 60%. Stando ai dati forniti dall’osservatorio de Il Sole 24 Ore, il costo medio per un litro di benzina al primo dicembre 2014 si aggira a 1,711 euro, rispetto ad 1,608 euro al litro del gasolio. Alle Canarie, come ci informa Pietro Murru di Soberania – di ritorno dalle isole autonome sottoposte ad un regime fiscale differente rispetto alla Spagna continentale – il litro di benzina si aggira ad 1 euro, rispetto a punte di 0,874 centesimi al litro per il gasolio. Pari a quasi il 50% in meno della Sardegna. Naturalmente, mentre il Regno Unito ha proceduto verso degli sgravi fiscali, l’Italia (ma neppure la Regione) non si è mossa di un millimetro, a riprova di una classe politica totalmente disinteressata agli effetti depressivi intercorrenti fra gli alti costi energetici e la tenuta produttiva delle nostre aziende.
Alquanto articolate le ragioni che hanno portato ad un abbassamento del prezzo del barile, spinto dalla strategia politico-economica dell’Arabia Saudita, il più influente protagonista commerciale dei Paesi OPEC. Secondo alcuni analisti la scelta si inserisce lungo due direttrici fondamentali: la prima riguarderebbe l’aumentato utilizzo dello shale gas da fracking interno da parte degli USA, che hanno ridotto il volume complessivo di importazioni internazionali. La riduzione del prezzo del petrolio, così come quella del metano, sarebbe quindi una conseguenza dell’entrata a regime degli investimenti avviati all’inizio dello scorso decennio sui progetti di fratturazione idraulica con cui si ottiene il gas, mentre i sauditi punterebbero a rendere ancora appetibile un alto livello di esportazioni di petrolio limitando l’utilità di nuovi investimenti nordamericani nel fracking.
La seconda direttrice, di ordine geopolitico, andrebbe a traino della prima, perché nella scelta di ridurre i prezzi del gas e del petrolio si determinerebbe la flessione del potenziale politico-commerciale di Paesi come l’Iran e soprattutto della Russia, che diminuirebbero così la loro influenza, prevalentemente basata sull’export metanifero. In parallelo ciò avvantaggerebbe la Cina, il maggior importatore energetico dell’Asia, ma in un momento in cui la ripartenza globale dei consumi non è particolarmente brillante, rendendo relativamente poco proficua questa maggiore disponibilità di greggio. La situazione non aiuterebbe neppure quei Paesi a maggior pianificazione economica e dipendenti dai proventi delle esportazioni petrolifere, come Nigeria e Venezuela.
Ma se la riduzione della bolletta petrolifera non incide sui prezzi dell’Italia e di vari Paesi UE (mentre se ne avvantaggiano direttamente le aziende USA), come ridurre il divario di competitività che separa il vecchio continente da quello americano? Molto semplicemente riducendo o eliminando il peso delle accise sugli idrocarburi nei nostri Stati-nazione. Ma siamo persuasi che nella patria del pubblico impiego ciò non avverrà tanto presto.
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- Vedere anche: Idee contro gli eco-furbi e sugli investimenti pubblici in energia (Sa Natzione, 01-10-14).
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