Sardegna e crisi libica: quali considerazioni del caso? Ci sono rischi?
La Sardegna corre rischi? Quali considerazioni assumere rispetto alla recrudescenza della situazione in Libia? E quanto sarebbe seria l’ipotesi dell’invio di un contingente militare che includerebbe la “Brigata Sassari”?
La guerra civile, alimentata nel Paese dal 2011 a seguito della caduta di Gheddafi, ha condotto ad una situazione di palese anarchia, dove numerose tribù e organizzazioni si contendono legittimamente il territorio dello Stato. In primis bisogna infatti considerare che la tenuta degli attuali confini geografici non può essere unilateralmente decisa dalla Comunità Internazionale, poiché si tratta di una decisione spettante ai popoli che vi sono stanziati, i quali avrebbero il pieno diritto di secedere, costituendo nuove entità statuali. Secondariamente, bisognerebbe valutare se tali componenti potrebbero costituire una minaccia concreta ed imminente per i sardi, intesi come cittadini italiani.
Come già illustrato in passato su Sa Natzione, il crollo del vecchio regime libico comportò un danno economico a diversi imprenditori sardi che si trovavano impegnati in settori quali edilizia e movimento terra. Ad oggi, la Libia gode di un governo ufficiale costituito dall’esecutivo di Abdullah Al Thani, il cui governo è stato spostato da Tripoli a Tobruk, mentre la capitale e la città di Misurata si trovano nelle mani di Fajr Libya, un’alleanza di milizie riconosciuta solo dalla Turchia. Bengasi invece si troverebbe in mano ad Ansar al-Sharia, un gruppo di milizie islamiste; mentre l’importante città di Sirte sarebbe recentemente finita nelle mani dell’IS, circostanza che ha sollevato un allarme sicurezza per l’Italia e per tutta l’Europa meridionale.
A dispetto di quanto affermato da una parte della stampa italiana, bisogna ricordare che l’IS non ha conquistato Sirte ed altre zone di frontiera: molto semplicemente diverse milizie dislocate sull’area hanno deciso di cambiare denominazione e di unirsi al califfato già noto in Iraq e Siria. Pertanto allo stato attuale non vi è alcuna invasione della Libia da parte dell’IS. Vi sono comunque una serie di elementi di difficile ponderazione per qualsiasi intelligence: è noto che le milizie terroristiche non dispongono di sufficienti armamenti militari in grado di colpire l’Italia, ma sono note anche le alte capacità di espansione e di reclutamento sociale dell’IS. Ciò significa che ci troviamo di fronte ad un problema che non è destinato a risolversi in tempi rapidi ma ad accrescersi. E al di là delle posizioni di merito che potranno eventualmente svilupparsi nei maggiori sostenitori iniziali del califfato, fra cui spiccherebbe il Qatar.
Un terzo elemento di difficile valutazione, su cui esistono pareri discordanti, riguarda la possibilità che dei terroristi possano infiltrarsi nei barconi di clandestini abitualmente diretti verso le coste italiane. Secondo l’UGL sardo della Polizia, uno dei rischi maggiori nell’isola riguarderebbe la difficoltà di identificare i migranti, perché nonostante Roma rimanga una città simbolicamente più appetibile per un eventuale attentato, nulla toglie che altre città, come Cagliari – solo in quanto parte dello Stato Italiano – potrebbero diventare obiettivi sensibili. Il rischio non cambierebbe neppure con la constatazione del fatto che il traffico di migranti verso le isole appaia sempre ridotto e maggiore sul continente, dove il flusso degli arrivi tende ad orientarsi verso l’Europa centro-settentrionale. Secondo alcune agenzie d’intelligence occidentali non vi sarebbero particolari rischi al riguardo, mentre secondo l’intelligence egiziana l’Italia dovrebbe preoccuparsi anche di questi sbarchi. E’ verosimile che la posizione del Cairo riguardi una linea politica destinata a coinvolgere l’occidente per contenere la minaccia patita lungo il confine con Tobruk.
Arriviamo al punto: soluzione politica o militare? Oppure un approccio combinato di entrambe?
Possiamo immediatamente escludere un intervento militare di terra per due ragioni: la prima è che la Comunità Internazionale ha già una vasta presenza militare in vari scenari di guerra e ciò spingerà diversi governi a non impiegare ulteriori risorse verso nuovi scenari bellici. La seconda è che un eventuale impegno militare italiano, seppur sotto l’egida dell’ONU, costringerebbe Roma a schierarsi con delle milizie avversarie dell’IS che sul campo si presenterebbero a geometria variabile e sarebbero difficilmente gestibili nel tempo e nello spazio (se non al prezzo di costanti ritrattazioni). Per quest’ultima ragione appare quindi improbabile qualsiasi immediato impegno terrestre dell’Esercito Italiano e della “Brigata Sassari”. Condivisibile quindi la posizione di prudenza espressa da Gianfranco Scalas, ex Colonnello dei sassarini.
Più serio riflettere attorno ad una soluzione politica: ad esempio rafforzando la posizione internazionale del governo Al Thani e del suo esercito affinché, con la collaborazione di alcuni eserciti dell’area, come quello egiziano, si sviluppino gli strumenti per contenere l’espansione dell’IS. In questo caso alcune unità dei nostri militari potrebbero (ma non immediatamente) ricoprire un ruolo di cooperazione e di supporto logistico alle forze impegnate su questo versante. Ciò nonostante rimaniamo sostenitori di una posizione non interventista: sia perché nulla garantisce che un supporto ad Al Thani porterebbe ad una rapida soluzione, e sia perché sarebbe improprio utilizzare il denaro dei nostri contribuenti per foraggiare un ennesimo governo autoritario del nord Africa (seppure dietro il nobile intento di fermare il terrore). Meglio investire temporaneamente sulla prevenzione dei nostri confini, senza con ciò giustificare l’eccessiva servitù militare insistente sulla Sardegna. Nonché potenziando i rapporti di persuasione diplomatica con quei Paesi che a monte avrebbero sostenuto la nascita dell’IS, onde limitarne il suo dilagare verso il Mediterraneo.
E’ altrettanto verosimile che l’Italia assumerà la soluzione politica sopra esposta, mediante il sostegno internazionale ad Al Thani, e tutt’al più limitandosi ad un intervento attraverso l’aeronautica militare. L’opzione dei bombardamenti mirati verrebbe considerata più sicura e meno insidiosa rispetto all’impiego di truppe terrestri, e più efficace per il contenimento e l’indebolimento delle postazioni dell’IS. Solo in una seconda fase sarebbe possibile immaginare l’invio di numerosi militari occidentali per pacificare le aree controllate dal governo di Tobruk, e per continuare a fornire supporto logistico non clandestino alla coalizione araba ostile al califfato.
In tutto questo rimane uno sconcertante dilemma politico: com’è possibile che la Giunta Pigliaru non spenda neppure due parole su qualcosa che accade non lontano da casa nostra e che ha spinto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a discutere della situazione?
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