Commento sovra il dilemma de’ commerci sardi

Afferma Corrado Putzu:

“Per aprire un negozietto bisogna mettere in conto duemila euro di commercialista, e con un collaboratore o due, poco meno di consulente del lavoro. Poi Tares e quota Tasi, e l’Imu se il locale è di proprietà. Inoltre bisogna mettere in conto che per l’Inps guadagnerà comunque 15mila euro, che si guadagnino o meno, e pagare la relativa quota. Deve mettere in conto che i suoi prezzi e i suoi guadagni li decide lo Stato con gli studi di settore. Poi passiamo alle pratiche burocratiche, ai dieci tipi di controllori che possono entrare nel suo locale, o fabbrica che sia, per chiedergli questo o quello. [...] ho visto imprenditori lavorare 12 ore al giorno, senza ferie, tredicesime, quattordicesime e malattia, con decine di dipendenti, e guadagnare molto meno del dirigente del Comune o di chi è stato introdotto in un Cda inutile da un partito: questo si, gli imprenditori lo vedono e lo sentono. Ed infatti i loro figli, quando hanno potuto, sono passati in massa dall’altra parte della barricata, cosa che fortunatamente sta finendo per il fallimento generale del sistema”.

Ecco Alessandro Gervasi:

“Argomenti ideologici sono l’astrattezza della politica culturale del protezionismo, la sociologia dei consumi eradicata dal mercato, la gestione dell’offerta ad esclusione della domanda, i modelli di scelta senza l’acquisto, i processi di consumo senza il prodotto, l’equivocità e la compravendita insoddisfatta, l’enfasi dell’autenticità del locale antiglobale, ecc”.

Due commenti, fra i vari, estrapolati da una riflessione interna al Partito Sardo d’Azione promossa dall’ex segretario Giovanni Colli, in base ad un articolo di Sa Natzione (“Comprare solo prodotti sardi? Sfatiamo il mito dell’autarchia e affrontiamo la realtà”, 10-07-14). Due commenti che fotografano la realtà in tutta la sua drammatica virulenza: da una parte il piccolo tessuto imprenditoriale dell’isola, stritolato da una politica che nel fisco e nella burocrazia trova le braccia esecutive per l’esercizio della propria permanenza al potere; dall’altra un “disinteressato” ceto accademico ed intellettuale (ma anche politico) che sigilla tale potere allontanandosi da una doverosa analisi di questa realtà. Perché lo Stato Italiano ha problemi di difficile soluzione: il regime partitocratico da cui è governato non ha alcun interesse a tagliare concretamente la spesa pubblica, mentre l’ingente mole di interessi sul debito pubblico funge da giustificazione per l’eccesso di pressione fiscale che grava sulle fasce produttive del Paese. La risultante di questa dinamica è una vorace catena alimentare dove il Governo centrale non taglia i propri costi e privilegi ma li scarica sugli enti periferici (come Regioni e Province). A loro volta Regioni, Province e Comuni, variamente attraversati da perduranti e massicci fenomeni clientelari, evitano di tagliare in tutti quegli ambiti grazie ai quali si struttura il voto politico: ASL, appalti per cantieristica pubblica, servizi idrici, raccolta differenziata dei rifiuti ed altri enti e municipalizzate varie. Il prodotto finale di questa piramide si condensa in pochi tagli su servizi considerati essenziali; nell’assenza di raziocinio della pubblica amministrazione, e soprattutto nell’assenza di una seria riduzione della pressione fiscale. Infatti ad un debole taglio della spesa pubblica non segue mai un taglio della fiscalità complessiva ma una semplice variazione di quest’ultima (in Italia ogni due o cinque anni si può arrivare a due o più denominazioni diverse per la medesima tassazione, come quella sulla proprietà). Giochi di prestigio che tendono a celare un parassitismo sociale i cui esiti, per la Sardegna, si sono manifestati in una flessione dei commerci, in una drammatica riduzione del settore manifatturiero e nell’espansione del settore terziario (in cui i servizi, interconnessi al settore pubblico, hanno assunto il peso più rilevante). Considerata poi la peculiare posizione dell’industria petrolchimica e l’incremento del mito secondo il quale il solo turismo potrebbe trainare una ipotetica Sardegna indipendente. Abbiamo un contesto dove ormai il credito non ha funzioni di start-up, mentre si spera nell’aiuto pubblico in supplenza del primo.

E’ mia opinione ritenere che uscire da questo impasse richieda l’assoluta presa di coscienza che l’indipendentismo sardo, sardismo incluso, debba rimettere al centro della propria azione politica il suo spirito riformista. Infatti i problemi economici dell’isola non troveranno soluzione se non affronteremo le ragioni politiche, culturali (e persino linguistiche) che oggi sottendono alla perpetuazione dell’assistenzialismo. Il punto non è solo osservare il volume delle importazioni, ma le nostre limitate capacità di produzione e di esportazione. Nonché i fattori che, come abbiamo visto, ne limitano le potenzialità.

Se l’indipendentismo intende governare dovrà superare improduttive letture ideologiche del passato e riportare la riforma dello Statuto autonomo regionale in cima alla propria agenda politica. Perché senza una seria sovranità per ridurre tasse e burocrazia, con il rispetto della nostra cultura locale, non si determinerà alcuna indipendenza.

In questo percorso non potremo aspettarci l’incondizionato appoggio né del mondo accademico e intellettuale sardo, e neppure dell’informazione regionale (salvo alcune componenti), poiché come sciami di locuste dipendono dalla spesa pubblica che sarebbe nostro dovere ridurre per liberare il mercato da questa oppressione. L’indipendentismo deve aprire la propria azione politica verso interlocutori finora ideologicamente ignorati: esistono ancora migliaia di piccoli imprenditori liberi, ma anche disoccupati e persino alcuni settori del pubblico impiego insoddisfatti dallo Stato (come nella pubblica sicurezza), che non possiamo più consegnare al voto verso i partiti italiani.

La cultura pop che pervade le università sarde ed il mainstream dilagante nella peàna dei loro intellettuali imputa al pensiero “neoliberale” la causa di tutti i mali. Ne consegue che i loro interessi sono perlopiù indirizzati ad attaccare l’austerity europea e statale rispetto al clientelismo locale ed all’assenza di trasparenza sull’uso dei conti pubblici (come se si trattasse di mondi separati). L’equivoco è determinato dal fatto che il pensiero liberale si è presentato con una vastità di autori che ha impedito di distinguere la linea di demarcazione che avrebbe potuto aiutare anche il nostro indipendentismo nell’uscita dalla sua marginalizzazione politica (basti pensare che, in epoche diverse, uomini come Keynes e Krugman si sono definiti “liberali”). E mentre tutti si accaniscono sulle spoglie della scuola di Chicago, ben pochi in Sardegna hanno approfondito la letteratura neo-austriaca (da Rothbard al presente), i cui autori oggi si oppongono tanto all’interventismo sovranazionale di organismi come la BCE, quanto all’ipocrisia sociale che determina il clientelismo e l’assistenzialismo di una popolazione.
Parliamone.

Adriano Bomboi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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    1 Commento

    • Sto iniziando ad avere forti dubbi sulla capacità dell’indipendentismo ad avere un’interlocuzione politica diversa da ciò che ha avuto fin’ora. Ho avuto modo di notare che il suo attaccamento a temi e modi fortemente ideologici ha quasi del pernicioso .
      C’è alla base una grande fatica al confronto sul piano politico e di conseguenza anche un rifiuto, spesso netto, del confronto sul piano elettorale. Tale rifiuto è mascherato dalla presunzione di una purezza che non si vuole contaminare in compromessi che porterebbero al cosiddetto “collaborazionismo” e nasconde a mio avviso, invece, la paura di affrontare gli avversari politici più radicati sul territorio, quelli più smagati elettoralmente parlando, i più “italiani” nel senso negativo del termine.
      Questo rifiuto al confronto, nasconde, credo, la profonda convinzione, anzi autoconvinzione di non essere capaci di vincere contro il più prepotente, il più preparato, il più dotato economicamente e, paradossalmente, nonostante lo smisurato orgoglio sardo, fa emergere la secolare rassegnazione di quei sardi che ritengono che in fondo, mai ce la potranno fare contro chi viene da fuori, contro l’imprenditoria e la politica importati dall’Italia.
      Così l’indipendentismo si ritaglia la propria fetta d’intervento politico fatto di testimonianza su temi ideologicamente alti, lasciando volentieri il campo libero a tutti gli altri per ciò che riguarda i problemi di amministrazione quotidiana del territorio. È una sorta di spartizione di piattaforme politiche: a noi l’indipendenza, le servitù militari, le scorie ecc… a voi la banalità dei trasporti, dell’istituzione dei punti franchi, della bonifica e riconversione dei territori inquinati, delle buche nelle strade. Diversamente non si spiegherebbe per esempio, l’avversione manifestata dalle frange indipendentiste più estreme, verso quegli esponenti dei partiti italiani quando hanno presenziato per curiosità – finalmente dico io – o solo a fini elettorali – ecchissenefrega aggiungerei – a manifestazioni come quella tenutasi a Capo Frasca il 13 settembre 2014 .
      Povero, ma onesto, direbbe Troisi della Smorfia, povero, rassegnato che abbaia alla luna, è la mia versione. Sul sogno cullato dell’indipendenza nessun dubbio, onestà assoluta, sulla capacità di aprire la propria azione politica verso altri interlocutori finora ideologicamente ignorati, beh…, su questo inizio ad essere scoraggiata anche io, ma non mi arrendo.
      La strada dell’unità del mondo indipendentista con il Psd’Az. in testa, ritengo che sia l’unica via percorribile se si vuole andare lontano. Il resto è solo una questione di sopravvivenza, in cui non esiste neanche una programmazione a medio termine sia per il sardismo, sia per indipendentismo.

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