Il commento: Inghilterra premia economia Cameron, Scozia indipendentista no

Di Adriano Bomboi.

56 circoscrizioni su 59, lo Scottish National Party è uno dei grandi vincitori delle elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento di Westminster, a cui accederà con una folta truppa di indipendentisti. Mentre il partito conservatore di David Cameron ha ottenuto la maggioranza assoluta della Camera dei Comuni (325 su 650 seggi). Grande sconfitta invece per l’Ukip di Nigel Farage, e per i liberaldemocratici alleati del premier, ma soprattutto per i laburisti, stritolati in tutto il Regno Unito dal fuoco incrociato di conservatori e indipendentisti.
Diverse e articolate le ragioni dell’esito elettorale.
Balza inevitabilmente agli occhi l’abissale differenza del sistema elettorale britannico da quello italiano, perché se in quest’ultimo il partito ha la facoltà di proteggere i propri nominati, nel Regno Unito il candidato ha la responsabilità primaria della propria circoscrizione, e sono gli elettori e non il partito a sancirne il destino. Al di là di questa pregevole forma di democrazia, non bisogna dimenticare la ragione essenziale della vittoria di David Cameron, ossia la buona tenuta dell’economia britannica nel suo insieme, con validi livelli occupazionali. Il governo conservatore, a differenza dell’Italia, ha saputo tagliare una buona fetta di spesa pubblica, eliminando personale e burocrazia inutile per favorire il mercato, reso così più efficiente. Un’economia ispirata a principi liberali, su cui rimane ancora molto lavoro da fare, ma che oggi continua ad attirare immigrati da mezza Europa, Sardegna inclusa. Da considerare infatti la peculiare sconfitta dell’alleato di Cameron, il libdem Nick Clegg, a cui l’elettorato non ha perdonato la mancata promessa di tagliare la tariffa universitaria. In un Paese in cui i programmi elettorali contano ancora qualcosa, e dove, soprattutto, si cerca di applicarli.

I laburisti filo-europeisti hanno indubbiamente pagato il successo economico di Cameron, e persino l’annuncio del premier di arrivare ad un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea. Un’adesione che non pare comunque in discussione, ma che è valsa, in un’ottica prudenziale, ad anticipare tanto gli euroscettici più radicali (che però rimangono la terza forza del Regno, con 3,5 milioni di elettori), quanto i più convinti europeisti sulla bontà del progetto. A riprova dell’estrema prudenza del popolo britannico, scarsamente propenso nel dare credito sia a formule populiste, sia a formule mitologicamente unitariste, come quella del labour Miliband.

Altrettanto articolato il quadro scozzese, che tuttavia ha visto una positiva ed inequivocabile vittoria degli indipendentisti contro la destra e la sinistra britannica, ma che presenta vari spunti di riflessione. La nutrita deputazione indipendentista obbligherà Londra ad avviare senza ulteriori ritardi i negoziati per una maggiore cessione di sovranità a favore di Edimburgo, mentre lo Scottish arriva ad un traguardo estremamente delicato. Bisogna infatti considerare che i vecchi successi scozzesi di Alex Salmond per il governo del territorio si basavano sulla conquista delle circoscrizioni allora tradizionalmente vicine al voto libdem, contrariamente al recente fallimentare referendum indipendentista, prevalentemente innestato su un programma socialdemocratico, che infatti spaccò rovinosamente il voto scozzese. Metà della popolazione ritenne infatti più affidabile la ricetta liberal-conservatrice di Cameron rispetto all’incremento di spesa pubblica paventata dai vertici SNP.
Come leggere quindi il cambio di rotta odierno?
Nelle prossime settimane assisteremo alle più svariate interpretazioni di questo recupero, ma su cui si proiettano sicuramente due ragioni fondamentali: la prima è che una fetta dei tagli apportati dal governo britannico ha riguardato proprio la spesa pubblica orbitante sulla Scozia; la seconda è che i laburisti filo-londinesi non sono stati ritenuti credibili nella difesa di tali servizi rispetto alla compagine indipendentista, intrinsecamente votata come più coerente e determinata per una presenza a Westminster. Ecco perché tali dinamiche apriranno uno scenario interessante: da un lato, come suddetto, Cameron non potrà opporsi ad una richiesta di maggiore sovranità scozzese; ma dall’altro, gli scozzesi potrebbero ritrovarsi con maggiori poteri amministrativi che faranno loro comprendere la necessità di intraprendere politiche economiche meno laburiste e più liberali, magari sulla storica scia di Adam Smith, e dunque a debita distanza da quel modello assistenziale già bocciato alle urne del referendum indipendentista. Sotto questo profilo appaiono certamente più avvantaggiati i nazionalisti catalani, i quali, forti della collaborazione tra CiU ed ERC (moderati e progressisti), godono di quella piattaforma nazionale che gli scozzesi non sono ancora riusciti a mettere in piedi.

Difficile valutare l’orientamento di Bruxelles, che fino a ieri annunciava timori di disgregazione europea a causa di una potenziale vittoria indipendentista, mentre oggi potrebbe trovare proprio negli indipendentisti un assist per la salvaguardia dell’Unione.

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