Lo Statuto sardo: ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto
Di Veronica Matta. Intervista su Cagliari Globalist, gruppo Il Sole 24 Ore.
Scrivere sullo statuto sardo, sul significato che esso ha per le nuove generazioni, su come è stato usato, e su quali vantaggi veri abbia dato alla Sardegna prevede un discorso lungo e articolato. C’è tanto da dire, soprattutto su tutto quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto. Questa intervista prova a far emergere il valore di ciò che significa per la Sardegna l’essere una Regione a statuto speciale, con tutti i suoi pro e i suoi contro anche alla luce dei recenti mutamenti politici, non solo socio-economici. Un tentativo volto alla comprensione delle prospettive di riforma, perché “è da oltre un secolo che si fanno mozioni e interpellanze inutili, a cui il governo risponde solo con chiacchiere, oppure centralismo, oppure con misure blande. La vera vertenza Sardegna dovrebbe partire da dei lavori per la riforma dello statuto autonomo: posto che si sappia cosa, come e perché riformare”.
Ne abbiamo parlato con Adriano Bomboi, opinionista liberale sardo, autore del libro “L’indipendentismo sardo“.
Cosa significa avere una Regione a statuto speciale? Cosa ha significato fino ad oggi?
Sul piano teorico, uno Statuto autonomo avrebbe l’obiettivo di avvicinare le istituzioni ai cittadini, sia al fine di sviluppare responsabilità amministrativa, sia al fine di rappresentare quelle che sono le esigenze e le peculiarità del territorio, in ordine alle sue caratteristiche economiche e culturali. Sul piano pratico ciò non si è mai seriamente realizzato. I motivi sono prettamente politici ed istituzionali. Da un lato perché, come ricordò anche Francesco Cossiga, l’Autonomia non venne mai interpretata come strumento di crescita territoriale ma solo come uno dei vari enti da cui alimentare una questua politica verso lo Stato. Mentre col passare dei decenni si è addirittura trasformata in un luogo di privilegio entro il quale far maturare piccole e grandi carriere politiche che non si sono mai seriamente occupate di valorizzare le poche competenze amministrative ottenute.
Pensiamo all’annosa questione della vertenza entrate, dove la classe politica non ha mai concretamente applicato gli articoli 8 e 9 relativi al gettito fiscale maturato dai sardi, e che da tempo immemore è finito a Roma e solo in minima parte restituito. O pensiamo alla mancata adozione dei punti franchi previsti dall’art. 12 per intercettare nuovi investimenti economici, individuati ma mai definiti. Per non parlare della rara adozione dell’articolo 51, che – sulla scorta del costituzionalismo americano – consentirebbe agli enti locali di opporsi a provvedimenti lesivi adottati dallo Stato centrale, e che in Sardegna è rimasto spesso lettera morta. Dall’altro lato infatti c’è da considerare che il regionalismo italiano, a differenza dei veri federalismi occidentali, continua ad assegnare allo Stato centrale la competenza esclusiva su determinate materie. Pensiamo, una su tutte, alla tutela della concorrenza (art. 117, lett. e della Costituzione Italiana); mentre il cantonalismo svizzero assegna persino agli enti locali la capacità d’intervenire su tematiche di politica estera. Un modello di sovranità da noi impensabile. Ciò nonostante, ai sardi non sono mancati piccoli ma significativi strumenti di democrazia: pensiamo alla possibilità di indire referendum consultivi attorno a tematiche di particolare rilevanza economica, sociale o ambientale. Uno strumento recentemente utilizzato in opposizione all’ipotesi di realizzare una centrale nucleare.
Cosa comporterebbe il passaggio da Regione a statuto speciale ad ordinario?
Ci sono due elementi fondamentali che distinguono le Regioni ordinarie da quelle ad Autonomia speciale, e sono riconducibili ad elementi di matrice culturale e di matrice fiscale. In merito al profilo culturale le stesse Autonomie godono di una disciplina diversa capace di migliorare la partecipazione democratica: ad esempio l’Alto Adige-Sudtirol ha maggiori possibilità di eleggere parlamentari a Roma con un proprio partito territoriale rispetto ai sardi, che pur essendo più numerosi dei sudtirolesi non riescono a conquistare eletti autonomisti. Ciò accade perché la legge elettorale italiana premia il territorio che esprime una minoranza linguistica riconosciuta nel proprio Statuto autonomo. I sardi invece, che non valorizzano la propria lingua nello Statuto ma solo tramite legge regionale (n. 26/97), non sviluppano questa facoltà. Le Autonomie inoltre hanno maggiore autonomia fiscale, possono cioè istituire e trattenere tributi propri rispetto alle Regioni ordinarie; sebbene a seguito della riforma del Titolo V° della Costituzione avvenuta nel 2001 queste differenze siano diminuite. Inoltre, come ricordavo poc’anzi, i sardi non hanno mai concretamente applicato questa possibilità. La Sardegna si è così trovata in una terra di mezzo, a cavallo tra Alto Adige e Sicilia: mentre il primo ha valorizzato cultura e autonomia fiscale, la seconda ha abusato del suo disposto finanziario, tutto ciò mentre Cagliari riduceva il proprio ruolo al rango di Regione ordinaria. Ciò nonostante, la perdita della specialità comporterebbe all’isola ulteriori danni. Va ricordato infatti che sul piano del Diritto, e quindi nel potenziale della rivendicazione politica, le Regioni autonome sono istituite tramite leggi costituzionali, i cui poteri si estendono nelle materie concorrenti a quelle esercitate dallo Stato (ad esempio su alcuni dei temi appena visti). Mentre le Regioni ordinarie non godono di tale tutela di rango costituzionale che, per quanto labile, rappresenta comunque una boccata d’ossigeno rispetto ai provvedimenti del governo centrale, che senza la nostra Autonomia non incontrerebbero più alcun ostacolo di sorta e né Roma sarebbe più costretta a mediare col governo locale attorno a varie misure economiche e culturali. Senza autonomia i sardi perderebbero completamente la propria storia, il proprio patrimonio ambientale e le proprie tasse, perdendo inoltre la facoltà di riscrivere il proprio statuto autonomo per aumentare i poteri di cui dispongono.
Si sente parlare in questi giorni della vertenza Sardegna, ma la vertenza Sardegna esiste o è solo politica?
Nel 1794 la monarchia sabauda rifiutò di soddisfare le richieste dei sardi, i quali auspicavano maggiore autonomia amministrativa rispetto ai funzionari piemontesi. La circostanza diede luogo ai moti rivoluzionari in seguito capitanati da Giovanni Maria Angioy. Da allora ci separano oltre due secoli di inutili interpellanze, risoluzioni, commissioni speciali, inchieste e piagnistei vari affinché dal governo centrale qualcuno si occupi di risolvere problemi in cui i sardi stessi hanno scelto di cacciarsi. Al di là della retorica, appare del tutto chiara l’inconsistenza politica di una “questione sarda”, perché una seria vertenza dovrebbe occuparsi di una serie di problemi strutturali che, come abbiamo visto, hanno una natura politica e istituzionale.
Dovremmo insomma riscrivere lo Statuto autonomo o superare la Repubblica Italiana. Purtroppo sotto il profilo politico alcuni settori del governo hanno maturato l’opinione che le autonomie speciali non abbiano più ragioni d’esistere. Quest’ignoranza nasce da un duplice problema: il primo è che si vedrebbe il superamento delle autonomie come un antidoto al dilagare della corruzione che queste, tramite classi politiche centraliste (autonomiste solo di facciata), hanno alimentato. Il secondo è che ormai vengono palesemente ignorate le ragioni culturali che portarono alla nascita dell’istituto autonomistico in seno al Diritto italiano. L’Italia del secondo dopoguerra non poteva ignorare le diverse minoranze linguistiche e nazionali presenti sul territorio dello Stato, e per evitare violente “derive” secessioniste si scelse di dotarle di una propria autonomia, anche tenendo conto del fatto che da Bolzano fino a Catania non si poteva dirigere uno Stato con le medesime ricette di politica economica e fiscale. Purtroppo l’analfabetismo politico che oggi contraddistingue la classe dirigente italiana reputa un disvalore la ricchezza del pluralismo sociale, e non ne comprende neppure le potenzialità economiche che ne deriverebbero se fosse sviluppato piuttosto che annientato.
Si parla spesso di riforme. Riformare cosa? In percentuale cosa facciamo di ciò che lo statuto già prevede?
Diversi politici e intellettuali sardi hanno lavorato a diverse proposte di riforma dello Statuto autonomo, e tutte puntualmente arenate a causa di una politica centralista ostile ad istituzioni più responsabili, meno dispendiose e più efficienti. In altri termini, il ceto dirigente dell’isola teme che la riforma delle nostre istituzioni favorirebbe un rilancio della nostra economia, e ciò farebbe perdere il potere di intermediazione sociale che oggi, tramite l’assistenzialismo, perpetua e struttura il loro voto nel territorio. Cosa riformare? Non ci sono dubbi sul fatto che la nostra sovranità dovrebbe porre un limite all’invadenza della scuola pubblica italiana, che ha distrutto la conoscenza della nostra lingua, delle lingue internazionali, della nostra storia, della nostra economia e addirittura della nostra geografia. Esistono sardi capaci di localizzare il fiume Po ma totalmente ignoranti sulla posizione del Tirso. In secondo luogo dovremmo estendere le nostre pertinenze fiscali non solo sull’esazione ma anche nella capacità di imposizione. I sardi quindi dovrebbero decidere il livello di tassazione più utile al nostro sistema economico, e quindi più leggero, onde attirare investimenti e creare occupazione. Ma anche la struttura amministrativa destinata a ridurre i cavilli burocratici che ostacolano la libera iniziativa. Attualmente in Sardegna vengono chiusi persino dei piccoli bed & breakfast a causa della tassazione Siae. Un’altra possibile risposta potrebbe arrivare da una mia proposta di riforma statutaria pubblicata nel libro “L’indipendentismo sardo”, edito da Condaghes (2014), nel quale si è prospettata un’ambiziosa riforma del Diritto amministrativo italiano, affinché si possa strappare al Titolo V° della Costituzione il potere in materia di Antitrust. Uno strumento che ci consentirebbe di aggredire tutti quei monopoli para-pubblici, come nei settori dell’energia e dei trasporti, che imbrigliano il nostro potenziale sviluppo. Ma si tratterebbe di una misura che richiederebbe una vasta partecipazione politica che il nostro indipendentismo non ha ancora saputo costruire. L’alternativa alle riforme rimane sempre e comunque l’indipendenza della Sardegna, sia tramite una riscrittura della nostra Autonomia che potrebbe condurci ad un futuro referendum in materia. Sia tramite un referendum che dovrebbe condurci a quell’Autonomia amministrativa per realizzare ciò che oggi il centralismo romano con i suoi manutengoli cagliaritani impedisce di portare a compimento.
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Redazione SANATZIONE.EU