Accogliere i migranti aiuta realmente l’economia?
Di Adriano Bomboi.
Da qualche tempo ha preso corpo una nuova bolla mediatica: “accogliere i migranti aiuta l’economia”.
L’affermazione viene ormai ripetuta da tutti: uomini politici, operatori nel settore dell’accoglienza, intellettuali, religiosi e persone comuni.
L’argomentazione di fondo è che tali migranti contribuirebbero ad arginare il fenomeno dello spopolamento in atto nell’isola, occuperebbero campagne abbandonate rendendole produttive e arginerebbero i bassi tassi di natalità presenti a vari livelli in Italia ed in Europa, con nuove contribuzioni che gioverebbero al complessivo sistema previdenziale.
Stando a tali opportunità si profilerebbe un mondo da favola, dove tutti risolverebbero i rispettivi problemi.
Sfortunatamente, la possibilità che tali propositi si traducano sempre e comunque in fatti concreti è ben lontana dal verificarsi, per via di vari fattori:
Il primo da prendere in considerazione è che i migranti non sono superuomini ma persone tali e quali agli abitanti locali. Le loro capacità d’investimento sono pertanto connesse ai capitali di cui dispongono, ed alle competenze che possono mettere in campo. Non siamo in presenza di liberi imprenditori ma di donne e uomini che hanno intrapreso un pericoloso viaggio col minimo indispensabile con cui arrivare a mete ben più ambite della Sardegna, cioè gli Stati dell’Europa centro-settentrionale.
Il secondo è che, a differenza degli abitanti locali, le differenze linguistiche e culturali dei migranti circa l’effettiva conoscenza del luogo in cui si approda, non garantiscono immediate possibilità d’integrazione sociale.
Il terzo è che, inevitabilmente, in quanto ospiti sprovvisti di capitali propri, l’assistenza e la loro integrazione richiederebbe capitali pubblici a fondo perduto da destinare in sussidi, incentivi e indennizzi alle attività private deputate alla loro accoglienza (un ultimo punto già in atto, col relativo sviluppo della corruzione registrata nel settore). Ciò significa che la fase iniziale che dovrebbe portare ai frutti auspicati dai sostenitori dell’accoglienza a prescindere richiede dei costi che precedono gli eventuali o presunti benefici.
Il quarto, il più importante, riguarda il territorio ospitante, in quanto il grado di integrazione non è connesso ai buoni sentimenti di una popolazione ma alle capacità economiche della comunità che dovrebbe assorbire i nuovi arrivati: la Sardegna proviene da decenni di terapia keynesiana, dove la politica ha sperperato un mare di denaro pubblico nel disastroso tentativo di sviluppare l’economia locale. L’unico risultato ottenuto, tutto negativo, è stato quello di aver incrementato l’assistenzialismo ed il clientelismo politico, cronicizzando la stagnazione economica dell’isola. Non ci sono ragioni dunque per pensare che un’opera assistenziale a favore di migranti muniti di minori capacità d’integrazione possa portare risultati diversi da quelli sinora osservati.
A ciò si aggiunga il generale clima di disagio fiscale e burocratico, tutto italico, mai risolto.
Il quinto riguarda infatti il volume e la natura del lavoro dipendente che le aziende sarde sono in grado di elargire: se infatti è alquanto improbabile pensare che i migranti siano tutti facoltosi imprenditori pronti ad investire denaro in loco, bisogna purtroppo constatare quanto la situazione dell’artigianato, dell’agricoltura e in generale del comparto manifatturiero sardo non godano di ottima salute. E questo rende assolutamente inverosimile che le nostre aziende siano in grado di assumere migliaia di migranti. La conclusione è che gli ospiti avrebbero basse possibilità di diventare sia lavoratori autonomi che dipendenti.
La sintesi di questa breve riflessione ci porta a considerare che una indefinita percentuale di nuovi arrivati diverrebbe facile preda di fenomeni di sfruttamento in nero dei lavoratori. Un’altra percentuale potrebbe finire tra le maglie della microcriminalità o, peggio, del crimine organizzato. E infine, potrebbero determinarsi problemi di ordine pubblico con un generale incremento degli episodi di razzismo degli abitanti locali a carico delle minoranze.
Insomma, l’accoglienza dei migranti è un problema che attiene tanto alla sfera della coscienza individuale quanto alla condizione economica della comunità ospitante: predicare accoglienza infinita in territori che non godono di livelli industriali e di settore terziario (che richiede formazione specializzata) paragonabili a quelli della Germania o del Regno Unito non significa aiutare i migranti in fuga ma danneggiarli. Complicando ulteriormente i problemi dei cittadini locali.
Attualmente in Sardegna non esiste un’emergenza sbarchi e siamo in grado di accogliere tanti sfortunati fratelli, malgrado l’Italia stessa, tramite la sua Marina, si sia trasformata nel maggior scafista legalizzato di tutto il Mediterraneo, incentivando persino la tratta di coloro i quali non avevano l’impellente necessità di lasciare i propri Paesi di origine. Ciò non significa tuttavia che tali sbarchi possano proseguire ai ritmi attuali senza aver prima affrontato le complesse ed articolate ragioni che spingono migliaia di persone alla migrazione.
Se c’è un’altra bolla mediatica da cui dobbiamo metterci in guardia infatti è proprio quella di stare alla larga dalla cosiddetta “industria della pietà”. Quella secondo cui, a fronte di secoli di colonizzazione occidentale, africani e mediorientali avrebbero tutto il diritto di spostarsi in massa verso le nostre comunità, e di ricevere assistenzialismo, quasi in un senso di rivalsa, addebitando esclusive responsabilità delle crisi ad europei, statunitensi, ebrei e sedicenti “ordini mondiali guidati dal capitalismo”.
Dobbiamo infatti considerare che l’eterogeneo panorama africano e mediorientale è il frutto di disomogenei fattori geopolitici in cui le locali classi dirigenti hanno larghe responsabilità per la situazione di morte e miseria da cui ingenti masse di persone scappano via in cerca di salvezza. Mentre la crisi siriana ed irachena ha cabine di regia riscontrabili nelle ricche monarchie sunnite contrapposte a dei regimi sciiti, ma presenti anche ad Ankara; l’Africa riscontra tassi di maggiore povertà in tutti quegli Stati che all’epoca della decolonizzazione seguirono l’influenza sovietica, applicando modelli di economia pianificata su cui si sono sviluppate perduranti dittature militari, non sempre influenzate dall’occidente (come ad esempio in Eritrea, uno dei Paesi più interessati dal flusso migratorio in uscita). Tutto ciò accade mentre sempre più intellettuali africani sostengono la necessità di superare politiche occidentali paternalistiche ed assistenzialistiche, ma anche le varie campagne mediatiche che tendono a cronicizzare la retorica dei problemi piuttosto che a risolverla.
A scanso di equivoci ricordo che il sottoscritto è figlio di quella generazione di sardi che negli anni Sessanta emigrò in Germania in cerca di fortuna.
- Disponibile anche su Cagliari Globalist.
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