Diritto e indipendenza: Il caso dell’Inghilterra, della Birmania e della Catalogna

Di Adriano Bomboi.

C’è stato un tempo in cui il Diritto veniva riformato grazie al sangue, al ferro e al fuoco. E ben prima che la rivoluzione francese facesse rotolare la testa di un sovrano, l’Inghilterra aveva già sperimentato una pratica con cui anelare alla libertà, ma che non portò ai frutti sperati.

Correva il 1649 e le forze rivoluzionarie fedeli ad Oliver Cromwell decapitarono il re Carlo I° d’Inghilterra, inaugurando l’era di una Repubblica che in realtà si trasformò in una dittatura non migliore della monarchia che l’aveva preceduta (più tardi, Napoleone e Lenin, come ricordò Popper, inciamparono nello stesso errore).
Non si può affermare tuttavia che il ricorso alla violenza sia sempre stato un percorso privilegiato rispetto al riformismo affinché il popolo si liberasse da questo o quel tiranno. Gli stessi rivoluzionari inglesi avevano diverse interpretazioni sulla natura delle istituzioni che intendevano promuovere. Nel caso inglese, la più grande spaccatura politica riguardò proprio la posizione di Cromwell rispetto al Generale che aveva condotto la rivoluzione di cui lui raccolse i frutti, Lord Thomas Fairfax.

Fairfax riteneva possibile riformare e salvare l’istituto monarchico estendendo le prerogative del parlamento e allo stesso tempo salvaguardando gli interessi del ceto mercantile e, in linea generale, del popolo.  Re Carlo però si dimostrò irremovibile e non accettò mai di firmare alcun accordo con Fairfax e Cromwell, in quanto riteneva che il suo ruolo, in stretta continuità coi sovrani precedenti, derivasse da Dio, senza ulteriori autorità terrene che avrebbero potuto metterlo in discussione. L’intransigenza della monarchia e la sua capacità di influenzare le forze parlamentari alimentò il radicalismo di Cromwell, che propendeva per l’eliminazione della Corona, e isolò la posizione moderata di Fairfax, il quale, pur godendo di vasto credito nell’esercito, scelse di non opporsi alla linea di Cromwell. Tutto ciò portò al colpo di Stato che decretò la condanna del sovrano, da cui il Generale si chiamò fuori.
Coi secoli,  largo tempo dopo la morte di Cromwell, la monarchia britannica assunse il ruolo sperato da Fairfax.

Eppure c’è un aspetto interessante che riguardò i protagonisti di questi storici eventi, perché sia il monarca, sia Fairfax (di rango nobiliare) e sia Cromwell (membro della gentry, la piccola nobiltà terriera), avevano come punto di riferimento l’antica “Magna Carta” del 1215. Malgrado ogni fazione tirasse dalla sua parte la coperta delle ragioni a supporto delle proprie scelte, tutti guardavano invano a tale “costituzione” come ad uno strumento per rappresentare chi il parlamento in nome del popolo, e chi la monarchia in nome del popolo.

Sotto un profilo giuridico è stato così rafforzato un modello di common law, cioè un modello in cui le istituzioni basano le proprie scelte sulla tradizione giuridica dell’esperienza, in netto contrasto ad un modello di civil law (che avrà invece fortuna nell’Europa continentale), dove, sul modello degli Stati contemporanei, degli organi politici scrivono ex novo i codici di un patto costituzionale che vincola popoli e fazioni politiche alla sua osservanza.

Alla prova dei fatti, il sistema legale del common law si è rivelato più efficace e democratico poiché ad esempio ha consentito agli scozzesi di tenere un referendum sulla propria indipendenza dal Regno Unito, seppur non vinto. Viceversa, la Catalogna, inserita in un modello giuridico di civil law, come quello italiano, porta Barcellona ad entrare in conflitto con Madrid nella necessità di superare un rigido patto costituzionale che non rappresenta più una porzione del popolo che l’aveva sottoscritto.

Che la fiducia nella democraticità di una Costituzione sia mal riposta lo dimostra persino l’esperienza della Birmania: la recente vittoria elettorale di Aung San Suu Kyi per la guida del Myanmar, nonostante i 291 seggi conquistati dalla sua “Lega Nazionale per la Democrazia”, rimane vincolata al benestare di una Costituzione che assegna alle forze armate il ruolo di arbitro della vita politica del Paese e a queste la capacità di effettuare nomine nei dicasteri di vertice della pubblica amministrazione.

Come l’esperienza ci insegna, la transizione verso la democrazia non dipenderà quindi dalla stretta osservanza di una carta ma dalla mediazione politica che i rappresentanti del vecchio regime, in eventuale accordo coi nuovi, sapranno sostenere.

Se in Myanmar tale processo non richiederà il ricorso alla violenza potremmo guardare alle conquiste umane con rinnovata fiducia. Ma la realtà in cui un processo di transizione ci appare più affascinante è indubbiamente quello catalano, sia perché si gioca interamente in ambito democratico, nel cuore dell’Unione Europea,  e sia perché il parlamento catalano ha recentemente introdotto una storica risoluzione di disobbedienza verso la corte costituzionale spagnola: in termini giuridici, si tratta di una sfida al civil law continentale mai vista prima in uno Stato dell’Europa meridionale.

Dobbiamo infatti considerare che il Diritto pubblico e costituzionale europeo ha già fatto enormi passi avanti grazie al piccolo Principato del Liechtenstein, la cui Costituzione riconosce il diritto di secessione, mentre i maggiori Stati del vecchio continente continuano a basarsi su obsolete costruzioni istituzionali che non rispondono più alle mutate condizioni politiche, culturali ed economiche dei popoli che sovrastano.

La disobbedienza catalana, alimentata dal sentimento indipendentista, porta a identificare gli atti del proprio parlamento con la sovranità popolare di cui è espressione, rendendo quindi illegittimi gli atti del governo, del parlamento e degli organi di garanzia spagnoli. Immaginate se il Consiglio Regionale della Sardegna decidesse di tramutarsi in Parlamento, dichiarando nulli gli atti delle istituzioni italiane. Si tratta di una disobbedienza democratica che per certi versi presenta caratteri di analogia con gli antichi rivoluzionari inglesi, i quali vedevano nel parlamento l’unico spazio di legittimazione del popolo rispetto ad una istituzione centrale considerata non più organica ma avversaria.

La sfida di Barcellona apre quindi scenari inediti, tanto sul piano giuridico che su quello politico, e lascia a noi sardi un quesito fondamentale: sapremo fare altrettanto?

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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