Bruxelles come Tel Aviv: più repressione o più integrazione?

Di Adriano Bomboi.

Tecnicamente parlando, nella definizione di Van Creveld il terrorismo viene ascritto alla “guerra asimmetrica”, cioè quella che non distingue più i civili dai militari come obiettivi di una determinata controversia politica.

Dopo gli ultimi attentati, l’Europa ha riscoperto il timore di attacchi indiscriminati che parevano ormai una parentesi del passato. Ciò nonostante, appaiono del tutto fuori luogo i paragoni con gli anni di piombo apparsi oggi in alcuni quotidiani italiani, così come appaiono ormai banali quegli appelli degli intellettuali che parlano di un Islam esclusivamente buono contrapposto a dei terroristi che con esso non avrebbero nulla a che fare; per non parlare di quegli opinionisti che attribuiscono alla globalizzazione l’esito del sangue sulle nostre strade: come se il libero mercato sia strettamente connesso alle politiche interventiste dell’occidente in Medio Oriente, analisi buona per ingenui sostenitori delle teorie sull’imperialismo che vanno da Rosa Luxemburg fino a Toni Negri.

D’altronde solo uno sprovveduto potrebbe ignorare che la prima integrazione di cui abbiamo bisogno, per disinnescare il terrorismo, è proprio quella economica, unica base possibile per quella sociale e culturale. Chi pensa che serva il processo inverso, magari incrementando il nostro welfare europeo, finge di non sapere che alcuni attentatori di Parigi e Bruxelles (quantomeno nei profili di quelli sinora identificati) godevano di alloggi pubblici e con parenti con posti spesati da contribuenti ignari.

Sfortunatamente oggi tutti reclameranno un’Europa più coesa, col fine di aggravare la cura potenziando le istituzioni centrali e limitando le libertà personali ed economiche. Qualcun altro invece auspicherà repressione verso gli immigrati, ignorando che il terrorismo non nasce da un fronte esterno ma soprattutto da uno interno, munito di regolare passaporto e tutt’altro che disagiato.

Vi sono poi ulteriori considerazioni da affrontare: la prima è che il Belgio, crocevia europeo del nuovo “fronte interno”, è uno Stato politicamente fallito, sorretto unicamente dalla presenza delle istituzioni europee e da una monarchia debole che ha sinora preteso di governare sotto ad uno stesso tetto una cultura vallona ed una fiamminga a cui non riesce neppure a garantire la sicurezza (perché tra di loro non dialogano neppure su questo versante). E forse sarebbe tempo di rivalutare l’opzione indipendentista.
La seconda riguarda il buonismo europeo nei confronti dell’Islam, come se quest’ultimo non fosse un universo che, per una serie di ragioni storiche e politiche, presenta ancora ampie connotazioni fondamentaliste in grado di fare proseliti anche nel nostro “fronte interno”. Indipendentemente dalle regie statali che lo animano. Questo problema viene sottovalutato tanto dall’Islam moderato presente nello scenario internazionale, quanto dal progressismo europeo (si pensi al generalizzato e interessato timore di alzare la voce con i sauditi per discutere del “brand ISIS”).

La soluzione ovviamente non consisterà nel trasformare l’Europa in una grande Israele munita di agenti, droni e telecamere ad ogni angolo, ma piuttosto quella di guardare allo spirito comunitario di Israele per costruire un’autentica Europa dei popoli, più dedita agli interscambi commerciali e culturali con l’esterno e meno burocratica, meno assistenzialista, meno guerrafondaia e quindi meno verticistica del presente. Unico antidoto possibile ad un’Europa priva di polso, in mano al potere di deboli, avventati e autoreferenziali autocrati.

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