Latte romeno di qualità o scarsa cultura aziendale sarda?
Nel mercato caseario, così come in altri settori, la competitività di un’azienda si misura anche dalla capacità di espandere il proprio circuito commerciale, diversificando la linea di produzione senza sacrificarsi al rapporto dei costi tra quantità e qualità, a tutto vantaggio dei consumatori.
Paradossalmente, i territori attraversati da una cultura assistenziale e scarsamente competitiva finiscono per accusare imprese capaci di sviluppare il proprio business: è il caso della polemica che ha riguardato il marchio Pinna di Thiesi, nota azienda lattiero-casearia, accusata di importare formaggio romeno da commercializzare al posto di quello sardo. Media e intellettuali pasticcioni hanno diffuso l’idea che tale azienda si stia arricchendo a danno dei sardi, i quali per bontà divina avrebbero sempre e comunque un prodotto qualitativamente superiore e competitivo rispetto ai concorrenti dell’Europa dell’est. Una qualità su cui i Pinna dovrebbero credere di più, magari rinunciando al proprio investimento internazionale, e pagando maggiormente i produttori sardi da cui attingono la materia prima: il latte.
Ovviamente questa cultura nazionalsocialista omette di considerare le ragioni della scelta romena dei Pinna: in primo luogo, il formaggio importato dalla Romania riguarda il segmento commerciale del grattugiato, il cui livello di apprezzamento da parte dei consumatori non rientra nell’analoga formula di veicolazione commerciale del latte (per altre fasce di prodotti i Pinna continuano ad approvvigionarsi pure in Sardegna, come sempre). In secondo luogo, Paesi come Romania, Repubblica Ceca e Ungheria dispongono di una serie di condizioni ottimali per cui investire. Ad esempio un clima fresco, con un’alimentazione animale capace di esaltarne la resa, unita a fattori di produzione dai costi maggiormente contenuti, come su energia e trasporti, ed a parità però di fattori igienico-sanitari con quelli sardi e italiani.
In termini industriali, un litro di latte romeno avrebbe una resa maggiore rispetto ad un litro di latte sardo. Tali caratteristiche mitigano il peso di investimenti che in Sardegna invece presentano problemi diversi, tra cui l’aggravio di fisco e burocrazia (fogli rosa, anagrafe dei capi, ecc.) che si sommano ad una costellazione di piccole imprese, spesso a conduzione familiare, dove l’incapacità manageriale si associa ad una scarsa innovazione dei modelli produttivi. Inclusa la natura alimentare del bestiame, in un panorama in cui l’eccesso di offerta della materia prima contribuisce al basso prezzo al litro pagato dai trasformatori ai produttori. Complice anche l’incultura secondo cui alcuni mercati di sbocco avrebbero sempre e comunque ben pagato il prodotto esportato. Che significa? Che numerosi pastori, corresponsabili, al pari della politica, della generale scarsa competitività in cui versa il settore, scaricano le proprie responsabilità sull’industria di trasformazione (in questo caso i Pinna), dalla quale pretendono incondizionato appoggio, a prezzo maggiore, per il volume di materia prima messo in campo. Eppure, malgrado i Pinna stessi per decenni abbiamo usufruito di aiuti pubblici, non possono essere ritenuti responsabili per la stratificazione di problemi la cui soluzione dovrebbe consistere in un serio arretramento di fisco e burocrazia.
La politica regionale dal canto suo ha compreso che le aziende nostrane dovrebbero estendere i propri investimenti ed ha promosso l’iniziativa del “pecorino bond”, in cui il formaggio stesso diventa garante di questi. Sfortunatamente, senza alcuna politica votata a liberare il mercato dai problemi di cui sopra, si prevedono esiti tutt’altro che sensazionali.
Su questi aspetti emergono due ulteriori considerazioni di ordine pratico, sia in ordine alla qualità che alla quantità dei prodotti lattiero-caseari: la prima è che, come ha fatto notare un recente intervento di Nicolò Migheli, la legge, contrariamente al libero mercato, definisce quelli che sarebbero gli standard della buona qualità del latte, a partire dalla 169/89. Come noto invece, la scienza, e sopratutto il gusto e le tasche dei consumatori, definiscono criteri piuttosto flessibili e variabili su prodotti le cui caratteristiche organolettiche possono variare nel tempo e nello spazio, e la cui promozione diventa quindi oggetto della campagna pubblicitaria di questa o quell’azienda del settore. Tra la sponsorizzazione di Omega 3, vitamine o digeribilità, il mercato cerca dunque una strada per farsi spazio lungo una burocrazia che altrimenti limiterebbe del tutto il diritto di scelta del consumatore: che senso ha stabilire se sia migliore il latte sardo o romeno di fronte ad un consumatore munito, ad esempio, di intolleranze alimentari rispetto ad un altro che non ne possiede? La qualità varia in funzione delle caratteristiche da questi ricercate. Non esiste un prodotto migliore o peggiore di altri, esiste a limite un prodotto più salutare o meno di altri. La sfida piuttosto consiste, grazie allo stimolo imposto dalla concorrenza (sarda o romena che sia), nell’investire per migliorare ulteriormente la produzione locale e diversificarla, non per lasciarla immutata in tutta la sua distribuzione territoriale sulla base di uno sterile orgoglio sardista.
Il mercato premia ciò che è possibile commerciare maggiormente e, come ricorda Roberto Brazzale, patron del Gran Moravia, è inoltre falso che la qualità non possa sposarsi con la quantità. Spesso la definizione di qualità è una suggestione che serve a coprire modelli inefficienti di produzione, cercando di scaricarne il maggior costo sia sui contribuenti (poiché la politica sussidia con soldi pubblici la produzione); sia sui consumatori stessi (vendendo nei supermercati prodotti “biologici” la cui qualità non è di per sé inferiore o superiore a terzi prodotti internazionali privi di etichette dop).
La seconda considerazione sulla quantità infatti attiene alla superstizione sui prodotti biologici e dop, filiere burocratico-clientelari per enti e sindacati frapposte tra produttori e consumatori. A questa superstizione, che dietro la certificazione della qualità cela il volto del parassitismo politico, si aggiunge la mitologia ambientalista degli intellettuali locali. Costoro immaginano la Sardegna come un immenso laboratorio biologico in cui il mercato premierebbe la presunta ecosostenibilità che questi saprebbe sviluppare. I dati sul mercato ovviamente dicono tutt’altro. Ad esempio, la produzione del Gran Moravia, di pari qualità all’italico Parmigiano Reggiano, comporta un consumo di 2.090 litri d’acqua l’anno, il secondo 11.000.
Da sfatare anche il mito per cui il biologico aiuterebbe le aziende di piccole dimensioni: Giorgio Fidenato, esponente di Futuragra, ricorda che solo il 16% dei prodotti commercializzati come bio proviene dal lavoro di piccoli imprenditori, mentre la restante quota di mercato riguarda conglomerati e multinazionali (tra l’altro, da aggiungere, sussidiate con soldi pubblici tramite la PAC europea). Bisogna inoltre considerare che tali produzioni richiedono una maggiore estensione di terra, trattandosi per lo più di ettari improduttivi, tutt’altro che utili a valorizzare l’occupazione.
In conclusione, la Sardegna non ha bisogno di indignati politicanti ma di cultura d’impresa.
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