Thatcher ’83: l’attualità di un discorso che sardi e italiani dovrebbero rileggere
Introduzione di Adriano Bomboi.
Correva il 14 ottobre 1983, Margaret Thatcher parlava alla conferenza del Partito Conservatore in un clima culturale che all’epoca poteva dirsi all’avanguardia. Il Regno Unito cercava di uscire dalla spirale della crisi avviata nel decennio precedente, contrassegnata dallo shock petrolifero a danno – soprattutto – dell’industria, mentre i temi di quel dibattito politico rimarranno in auge per tutti gli anni Ottanta e getteranno le basi della rinascita britannica dopo una fase di prolungata stagnazione.
Ma di quali temi si trattava esattamente? Della riduzione della spesa pubblica, della tassazione e del tentativo di liberalizzare maggiormente i servizi, contrastando l’inflazione e riducendo il peso del pubblico impiego sul mercato.
Sul piano storico non bisogna dimenticare che tali scelte di governance si ponevano sulla scia di un contesto globale che proprio negli anni ’70 vide diverse amministrazioni occidentali alle prese con i costi di un welfare state ormai dilatato a dismisura. L’idea di fondo, influenzata secondo varie sfumature dalla Scuola di Chicago e dalla Scuola Austriaca, considerava improduttivo l’approccio keynesiano (cioè l’interventismo pubblico in economia), propugnando invece una maggiore libertà del mercato rispetto ai limiti imposti da apparati burocratici onerosi ed inefficienti. Eppure, né Thatcher, né Reagan negli USA, sapranno o potranno applicare alla lettera tali ricette di politica economica. Ciò nonostante, la perseveranza della “lady di ferro” nel tentativo di applicare parte di tali principi si rivelerà fondamentale per assicurare al popolo britannico un’era di relativo benessere, la cui eredità verrà raccolta da tutti i governi successivi, inclusi quelli ad orientamento laburista.
Viceversa, escluso il caso svizzero e pochi altri, tutti i maggiori Paesi del vecchio continente, ed in particolare l’Italia (che “rispose” alla crisi unicamente tramite l’apertura a governi di maggioranza socialdemocratica), proseguiranno imperterriti nel sopportare una spesa pubblica i cui costi verranno prontamente scaricati nel tessuto produttivo, falcidiandone la competitività. Ed alimentando sprechi e disservizi della macchina pubblica, sino ai maggiori scandali della corruttela politica che hanno evidenziato la sistematicità culturale di un keynesismo che nei fatti non è mai stato seriamente superato. Basti pensare che in Italia ancora oggi persino la destra, la grande stampa, gli intellettuali, e la maggiore associazione industriale del Paese, ritengono opportuno sostenere politiche dal respiro protezionistico e assistenzialistico. Lo Stato (ma anche l’istituto regionale) visto come taumaturgo universale, una sorta di provvida mano paterna capace di giustificare, dietro la mitologia dei “diritti” da tutelare, la sottrazione di risorse a danno dei pochi ceti produttivi rimasti.
Alla luce di questa regressione culturale, tutt’ora in corso, appare fondamentale rileggere uno stralcio del discorso tenuto da Margaret Thatcher in quel lontano 1983, in un contesto così diverso dal nostro ma tanto utile nella sua assoluta semplicità per non perdere di vista le ragioni essenziali della nostra crisi.
Un dettaglio di cui tenere conto, per capire la straordinaria attualità della “lady di ferro”, riguarda il passaggio in cui citò sarcasticamente Sir Gladstone, premier britannico di epoca vittoriana, membro del Partito Liberale, alla luce del fatto che a dispetto della sua denominazione tale partito fu uno dei primi sostenitori delle teorie di John Maynard Keynes. Teorie che, stando all’acume della Thatcher, Gladstone avrebbe potuto rifiutare a favore delle nuove intuizioni raggiunte dai Tories:
« Una delle grandi discussioni del nostro tempo riguarda quanto del vostro denaro debba essere speso dallo Stato e quanto voi dobbiate invece mantenere e spendere per la vostra famiglia.
Non dimentichiamoci mai questa fondamentale verità: lo Stato non ha altre fonti di denaro se non nel denaro che la gente ha guadagnato per sé.
Se lo Stato intende spendere di più lo può fare soltanto prendendo in prestito i vostri risparmi o tassandovi di più. Non è un buon ragionamento ritenere che sarà qualcun altro a pagare. Quel qualcun altro siete voi.
Il denaro pubblico non esiste; esiste soltanto il denaro del contribuente.
La prosperità non giungerà attraverso l’invenzione di programmi di spesa pubblica più numerosi e sostanziosi.
Non diventerete più ricchi ordinando un altro libretto d’assegni alla banca.
Nessuna nazione è mai diventata più ricca tassando i suoi cittadini oltre la loro possibilità.
Abbiamo il dovere di assicurarci che ogni singolo penny che raccogliamo con le tasse sia speso bene e saggiamente, perché è il nostro partito che oggi si è dedicato a far bene le faccende domestiche. Scommetterei tranquillamente che se Mr. Gladstone fosse vivo oggi farebbe domanda per entrare nel Partito Conservatore.
Proteggere il portafoglio del contribuente, proteggere i servizi pubblici: questi i nostri due grandi obiettivi e le loro richieste vanno conciliate.
Come sarebbe bello, come sarebbe popolare poter dire: “Spendiamo di più qui, espandiamo ancora di là”.
Ovviamente ognuno ha le sue cause preferite. Io so di averne. Ma poi qualcuno deve far tornare i conti. Ogni azienda deve farlo, ogni casalinga deve farlo. Ogni governo deve farlo e questo governo lo farà. »
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
Il suo articolo è poco chiaro. Come è fraintendibile il discorso della Tatcher. Che il pubblico non possa essere onnipresente è chiaro oramai a tutti,che i soldi pubblici debbano essere ben spesi, anche. Che poi questo non accada è altra faccenda, che ha a che fare con lo svuotamento delle strutture democratiche di partecipazione alla vita pubblica e la conseguente scomparsa di un controllo ‘dal basso’ della macchina pubblica. Se si tratta di limitare l’assistenzialismo o la presenza pubblica nell’economia, concentrando le risorse sui servizi essenziali (sanità, scuola, opere pubbliche), io concordo e credo in buona compagnia. Ma se l’obiettivo è definire la primazia del mercato e l’innesto della libera concorrenza, fomentata dal consumismo in ogni settore, compresi i servizi essenziali, allora mi trova in totale disaccordo. Il marcato è dominato dall’interesse individuale, e sulla sopraffazione economica dell’altro, per il sistema della concorrenza. Questo principio associato a sanità o scuola produce diseguaglianze enormi e blocca l’ascensore sociale. Dire poi che oggi in Italia il problema stia nella scarsa liberalizzazione è assurdo. Il sistema sanitario soffre proprio dell’interesse privato del settore farmaceutico che porta chi lo gestisce a spendere il denaro in favore dell’interesse dei fornitori e dei benefici che questi gli porteranno. Le liste d’attesa infinite del pubblico sono un regalo al privato che lucra su ritardi storicamente recenti e che bisogna essere poco furbi a definirli casuali. Per non parlare del fatto che il principio del merito non si possa applicare ad una malattia. Per la scuola ancora peggio: con il prevalere di istituti privati si rovescia il principio del merito e si impone un sistema dove una migliore formazione tocca a chi ha la fortuna di nascere benestante. Si bloccherebbe così l’ascensore sociale,cosa che in parte già accade con le tasse universitarie che sono molto più alte di prima, per strutture e qualità della formazione inferiore; mentre crescono le università private e con esse il malsano (per la società) privilegio di chi può permettersele. Esempi fatti sui settori più sensibili ma che potrebbero valere per mille spa o società che gestiscono servizi pubblici. Altrettanto accade a monte con partiti divenuti comitati elettorali all’americana, privi di una partecipazione della società reale e subalterni agli interessi lobbistici che ne finanziano le campagne elettorali. Interessi che di fatto si comprano leggi e favori, che rispondono ad interessi particolari o individuali e non a quelli generali/collettivi. Negli ultimi venti anni il mercato sregolato ha vinto, le teorie tatcheriane anche. In alcuni paesi più che in altri e sempre in modo diverso. Oggi dopo trent’anni di politiche di alleggerimento dello Stato e deregolamentazione dei mercati (o liberismo finanziario) la ricchezza si è spostata dalle classi medie -sempre più povere- e da quelle basse, verso i ricchi e i ricchissimi. Un dragaggio impressionante di ricchezza che si accentra nelle mani di pochi. A mio modestissimo parere, le posizioni puramente ideologiche in merito non funzionano. Ne quando pendono verso il liberismo ne quando sono socialiste. Dovremmo interrogarci su che società vogliamo, sulle deformità del sistema finanziario e su che modo lasciare ai nostri figli. Con la mente aperta e pronti ad ammettere di aver sbagliato, un po tutti.
Nella sua replica ha trattato diverse tematiche, in parte parallele tra loro. Cercherò di sintetizzare in breve:
Il mercato è certamente dominato dall’interesse individuale ma questo non significa che ciò comporti la sopraffazione dell’altro. Al contrario, i dati ci dicono che grazie al mercato mai nella storia umana una così grande quantità di persone ha ottenuto beni un tempo impossibili da immaginare per le fasce sociali meno abbienti. Faccio un esempio banale: la libera concorrenza ha permesso il miglioramento tecnologico dei telefoni mobili e l’abbattimento dei prezzi. Risultato: tali prodotti oggi sono disponibili per quasi tutti e non più solo per una ristretta cerchia di benestanti. Il processo vale per tutti i prodotti di consumo. In secondo luogo, è falso affermare che la crescita della ricchezza abbia incrementato la povertà. Come confermano sia i dati di FMI che Banca Mondiale, il problema non risiede nella redistribuzione della ricchezza ma nella produzione di ricchezza: chi è ricco magari si è guadagnato ciò che possiede, chi è povero magari va messo nella condizione affinché possa produrne (e questo non può avvenire se togliamo al ricco ciò che si è guadagnato per darlo al povero). Dal 1990 ad oggi al mondo ci sono centinaia di milioni di poveri di meno, grazie all’apertura verso il mercato di Cina e India. Questi sono fatti, non opinioni. In quanto alla Thatcher, faccio presente che i Paesi meno liberali d’Europa perdono cittadini, che emigrano, a vantaggio dei Paesi che hanno liberalizzato di più, tra cui l’Inghilterra. E anche questi sono fatti, non opinioni.
In merito poi alla spesa sanitaria: il grosso della spesa in eccesso non deriva tanto in sé a livello globale dalla farmaceutica (la Svizzera, che ha tra le maggiori multinazionali del settore ed un forte sistema privato, ha spesa farmaceutica inferiore, in rapporto al peso demografico, a Paesi con maggiore presenza del pubblico nella sanità). Anche questi sono fatti, non opinioni. In Italia casomai il problema è separare la politica da questo settore, i cui costi derivano in parte nella farmaceutica, in parte, soprattutto, dagli appalti, nonché dalle assunzioni.
In merito alle tasse universitarie, mi rifaccio agli studi di Pascal Salin, laddove è abbastanza evidente che un sistema di tassazione ad impostazione progressiva, in percentuale, grava più sulla classe media che sui ricchi, perché i primi in fin dei conti foraggiano anche i secondi. Dove invece esistono Paesi con più università private i risultati nella ricerca e nel campo dei brevetti sono di alto livello (questo perché anche le università entrano così in competizione tra loro, cioè in concorrenza, per innovazione e per aggiudicazione di sostegni economici).
Poi che le ideologie abbiano fallito, al lato pratico e ideale, sono d’accordo. Ma è anche vero che sul liberalismo esistono troppi ingiustificati stereotipi.