Strage di bambini: cosa ci aspetta dopo Nizza?
Qualcuno ripeterà che c’è bisogno di più cultura. Pensate agli uomini della belle époque: immersi tra arti e scienze immaginavano un radioso futuro.
Poi arrivarono due guerre mondiali.
Magari dopo Nizza sarebbe riduttivo parlare unicamente di repressione o integrazione.
Di Adriano Bomboi.
Tra gli 84 morti della strage di Nizza ci sarebbero numerosi bambini. Il fatto purtroppo non dovrebbe stupirci. Il lungomare della città è tradizionale meta turistica e di tanti transalpini che passeggiano con famiglia al seguito, stavolta in un giorno particolarmente simbolico: il 14 luglio. Nelle vicende della rivoluzione francese portò alla nascita dello Stato contemporaneo, cioè di un’entità che si è proposta di avere il monopolio della forza per difendere i cittadini ma anche per mandare gli stessi a colonizzare e integrare altri popoli in nome della propria gloria.
Oggi siamo nell’era di quelle che tecnicamente si definiscono “guerre asimmetriche”. Non ci sono più eserciti regolari che si confrontano ma singoli o gruppi, più o meno addestrati, che nei loro obiettivi non distinguono un militare da un civile. Il profilo tipico dell’attentatore non è quello di un povero scarsamente integrato nel tessuto sociale e professionale della comunità in cui vive ma di un individuo mediamente istruito e munito di reddito (Abadie 2004; Krueger 2007).
La sua ideologia, ieri cristiana e nazionalista, oppure laica e comunista, oggi può addirittura essere il frutto di contingenti dinamiche familiari (pare che l’attentatore di Nizza non avesse particolari motivi di risentimento politico e religioso contro la Francia). E può muoversi sulla base di una semplice emulazione mediatica, rispolverando quell’islamismo radicale che non si avvale più del diretto supporto di uno Stato, inquadrato nei ranghi di un esercito, ma eterodiretto e di difficile tracciabilità. Ad esempio, l’emersione dell’ISIS, fomentata dalla strategia di alcuni governi del Golfo e del vicino oriente, proietta sull’occidente, anche per emulazione, il tentativo di rivalsa della barbarie sulla ragione (pure a danno di tanti buoni musulmani). In questi termini si comprende bene come l’idea marxista di molti intellettuali, secondo cui gli attentatori sarebbero mossi da ragioni meramente economiche, non trova riscontri empirici. Di conseguenza non trova supporto neppure l’idea che per risolvere questa follia sia sufficiente credere che serva più cultura o più integrazione di quelle esistenti. Ciò era abbastanza evidente sin dall’inizio del secolo scorso, quando, come ricordò il compianto Elie Wiesel, le maggiori potenze europee attraversavano un’epoca in cui la classe dirigente di tali Paesi trovava nelle arti e nella tecnologia le ragioni per immaginare un radioso futuro. I popoli che ammiravano estasiati una galleria d’arte o il volo di un dirigibile sono stati anche i primi ad utilizzare lo Stato emerso dalla rivoluzione francese come la più micidiale macchina di morte della storia, spingendo l’umanità della belle époque verso due guerre mondiali. Ma ciò era sempre avvenuto laddove una minoranza, in nome della “pubblica felicità”, espropriava il frutto del lavoro dei suoi sudditi per finanziare le proprie avventure militari.
Oggi gli eredi di quelle classi dirigenti hanno perso il controllo del mostro che hanno contribuito a creare, pur consapevoli, nel terrore, di non poter assegnare un poliziotto per ogni cittadino a rischio che passeggia per le strade.
Nella mentalità occidentale si è soliti ritenere che la notizia di un attentato sarà sempre l’ultima, e che dopo tutti vivranno felici e contenti. In fondo la morte riguarda sempre qualcun altro, spiacevoli episodi televisivi a cui faranno da corollario i commenti di imbarazzanti esperti che daranno la colpa al “neoliberismo”. L’equivalente del “babau” per indurre un bimbo a mangiare la pappa. Tra questi signori ci sarà chi proporrà più integrazione, ignorando la brutalità di un’ideologia risoluta, eterodiretta da alcuni Stati e fondamentalista. E ci sarà chi proporrà più repressione, alimentando razzismo e ignorando la crescente diminuzione delle libertà individuali.
Ben pochi invece proporranno di attenuare il monopolio della forza attribuito allo Stato, consentendo ai cittadini di difendersi da soli (ma il populismo penale ignora le statistiche che smentiscono l’idea per cui una maggiore presenza di armi private “corrisponda” ad un più alto tasso di omicidi). E ben pochi proporranno ai propri governi di tagliare la spesa pubblica per l’esportazione della “democrazia”. Su quest’ultimo aspetto, pensiamo all’assistenzialismo occidentale in Afghanistan: il fenomeno ha accresciuto la corruzione di istituzioni locali che sono finite a sparare contro i nostri stessi soldati, pur di ottenere ancora denaro da reinvestire non a Kabul ma nei ricchi emirati arabi.
Per uscire da problemi tanto complessi non esistono ricette universali, né tecniche di intelligence capaci di prevenire la volontà stragista di ogni singolo o gruppo malintenzionato. Nel breve termine sarebbe auspicabile investire in prevenzione, estendendo questa possibilità anche ai privati. Nel medio e nel lungo termine invece sarebbe preferibile evitare che gli Stati accrescano il loro incondizionato potere di veto sulla vita dei cittadini, sia i propri che quelli stranieri.
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