Lavoro: Muroni e Maninchedda a confronto su un tema fondamentale
Lavoro: due importanti protagonisti del dibattito politico sardo si interrogano sulle priorità occupazionali dell’isola. Anthony Muroni e Paolo Maninchedda, un giornalista ed un assessore regionale. Ma quanto sono efficaci le loro diagnosi e le terapie proposte? Leggiamo con occhi critici alcuni precisi passaggi dei loro diversi interventi – Di Adriano Bomboi.
Il più noto giornalista dell’isola, Anthony Muroni, ex direttore del quotidiano L’Unione Sarda, ed uno dei politici più importanti della Sardegna, Paolo Maninchedda, assessore regionale ai lavori pubblici, hanno scritto – ognuno secondo il suo diverso punto di vista – un articolo dedicato alla principale emergenza dei sardi: il lavoro.
Rileggiamo criticamente alcuni precisi passaggi dei loro interventi per capire qual è la loro idea di Sardegna, e se il dibattito pubblico di cui sono protagonisti è in grado di offrire soluzioni percorribili al problema.
Partiamo con Muroni, il quale afferma:
“La politica ha la responsabilità di non aver saputo proteggere il sistema delle imprese dalla concorrenza sleale del mercato globalizzato, soprattutto per quel che riguarda il costo del lavoro.
Le imprese hanno la grave colpa di aver assecondato questa slealtà, facendo la corsa a delocalizzare per risparmiare sui costi, impoverendo così il tessuto produttivo italiano”.
Finalmente qualcuno si ricorda che esistono le imprese, senza le quali verrebbe meno il lavoro. Non è poco.
Il restante pensiero di Muroni purtroppo è contrassegnato da alcune gravi imprecisioni: il costo del lavoro in Italia è nella media UE, ed al contrario, l’Italia è il Paese dove si è fatto di più per ridurne l’impatto sulle imprese, benché rimanga comunque alto. Probabilmente l’ex direttore si riferisce al carico complessivo del fisco su queste ultime (burocrazia inclusa), che in questo caso è tra i più alti dei Paesi OCSE, e lo Stato infatti non ha fatto nulla per ridurlo.
In merito al fenomeno della delocalizzazione richiamato da Muroni, dobbiamo considerare che, come in Sardegna, in Italia si ha una netta prevalenza di piccola e media impresa. La maggior parte di queste non ha affatto delocalizzato perché non è in grado di farlo. Di conseguenza non esiste un’emergenza delocalizzazioni che nell’isola abbia seriamente influito sul livello occupazionale. Probabilmente l’autore si riferisce ai medi e grandi gruppi (minoritari in rapporto al volume dell’impiego ma mediaticamente più rilevanti), i quali, per rimanere entro un proprio standard di competitività, hanno legittimamente scelto di scappare da uno Stato che assorbe la maggior parte della loro ricchezza prodotta. In Sardegna esiste un’alternativa alla delocalizzazione, purtroppo già percorsa da migliaia di piccole imprese, sia nel commercio che nella manifattura: il fallimento.
Prosegue Muroni:
“Sindacati e conservatori, infine, dovranno rispondere davanti ai Tribunali della Storia per non aver accettato la sfida sulla modernizzazione del mercato del lavoro, quando ancora si era in tempo per evitare gli effetti nefasti della globalizzazione e di una deregulation tutta voucher e diritti negati”.
Commentiamo questo passaggio con una domanda: qual era e qual è l’incidenza dello statuto dei lavoratori, in particolare dell’art. 18, in Sardegna? Ebbene, quasi nessuno. La maggior parte del nostro tessuto aziendale, composto da piccole imprese, per lo più a conduzione familiare o comunque sotto i 15 dipendenti, mostra una realtà in cui i diritti dei nostri dipendenti nel settore privato sono più o meno gli stessi che hanno preceduto la riforma degli ultimi governi italiani in materia di normativa del lavoro. I voucher non hanno dunque sostituito tale realtà ma si sono semplicemente integrati ad uno status preesistente del lavoratore sardo.
Insomma, Muroni è sulla buona strada ma necessita di migliorare le sue competenze in materia economica, le quali sono chiaramente imbevute di ideologia importata dalla sinistra italiana, in particolare quella extraparlamentare, costituita dalle opinioni di una serie di amici, intellettuali e pubblicazioni che probabilmente fanno parte della sua formazione, proseguita in ambito mediatico, ma che in Italia diverge sensibilmente rispetto al contesto sardo. In specie nelle differenze tra settentrione, mezzogiorno, isole e meridione italiano.
Con le opportune correzioni, il giornalista potrebbe diventare un valido candidato politico per la guida della Sardegna (non scordiamoci le importanti battaglie di Muroni per la trasparenza della politica e della pubblica amministrazione, temi liberali).
Che consigli offrire qualora intraprenda una strada da governatore? Di ristrutturare la propria squadra, se c’è, e di mettere in discussione alcune idee in base ai dati dell’isola.
Veniamo a Maninchedda, che afferma:
“Più studio i conti della Sardegna più mi convinco che la questione fiscale è strategica per il nostro futuro. Le aliquote italiane sono incompatibili con ogni processo di accumulazione e riuso del capitale possibili in Sardegna. Noi abbiamo bisogno di un periodo più o meno lungo nel quale chi produce lavoro e reddito paga meno tasse. Noi abbiamo bisogno di liberare le imprese da un appesantimento fiscale calibrato sul sistema economico del Nord Italia assolutamente diverso da quello sardo”.
Maninchedda ha centrato un punto fondamentale: il processo di accumulazione del capitale, o meglio, la nostra capacità di creare ricchezza, è direttamente proporzionale alla liberazione delle forze che sono in grado di realizzarla, cioè le imprese (sia quelle esistenti che le potenziali). E’ un concetto liberale (ma anche di buon senso, su cui gli amici socialdemocratici che non hanno mai letto Mises o Hayek non avranno di che obiettare).
Nonostante la buona premessa, l’assessore Maninchedda inizia a deragliare da questi binari suggerendo l’utilità di nuovi investimenti pubblici, prendendo come esempio una realtà diversa dalla nostra:
“Lo Stato europeo con il più pesante intervento pubblico è la Germania che, sarà un caso, è lo stato europeo più in salute”.
No, non è un caso, ma per motivi diversi: la Germania ha un quadro infrastrutturale e di welfare basato su un sistema economico votato alla concorrenza, non al debito, come quello italiano.
L’assessore prosegue:
“Nel contesto provinciale italiano, dai tempi di Prodi, il mantra è stato invece privatizzare, l’opposto del percorso tedesco”.
La Germania ha privatizzato poco perché aveva già ed ha un potentissimo settore privato, con aziende leader nel mondo in vari settori. Forse in Italia Maninchedda preferiva ancora i costi ed i servizi di aziende telefoniche come la SIP?
Poi aggiunge:
“Un cambiamento di sistema è impossibile affidandosi al laissez faire verso i mercati o semplicemente alle strategie di singole imprese private. Faccio un esempio. La connessione indispensabile per noi tra il turismo, la valorizzazione del territorio e l’agroalimentare, non si può realizzare senza un grande piano di investimenti pubblici e di massicci interventi in economia”.
Maninchedda inciampa nel solito problema che affligge la politica sarda dai tempi dei Savoia: la volontà di pianificare soldi altrui, quelli pubblici, nella speranza che coprano i limiti di un mercato che in realtà di “laissez faire”, dalle nostre parti, ha ben poco.
La sua “Rinascita 2.0” esprime una volontà che affonda le sue radici nel mito per cui possa esistere un pianificatore politico in grado di allocare beni e servizi in modo ottimale, ma un simile Dio in terra sinora non l’ha mai visto nessuno.
L’agricoltura, solo per fare un esempio, è uno dei settori più assistiti che esistano. Diverso è invece il carico di limiti a cui è sottoposta, come fisco, burocrazia e costi vari (energia e supporto idrico). Ma vi sono anche costi culturali occulti. Ve ne espongo uno nel settore della produzione lattiero-casearia: sapete perché, a differenza di altre aziende europee, ai nostri produttori costa di più esportare il latte? Non solo per il generale costo dei trasporti, ma per l’assenza di riduzione dei costi possibili sugli stessi trasporti. Perché in Italia vi è una larga ostilità alla trattazione di latte in polvere (a cui è stata semplicemente sottratta l’acqua); di conseguenza la diffusione del latte non disidratato richiede volumi, pesi e dunque costi nettamente superiori a quelli della concorrenza di aziende straniere. La cui qualità peraltro non è affatto inferiore alla nostra.
In conclusione, Maninchedda ha una estrema e probabilmente non disinteressata fiducia nell’uso dei soldi altrui per presunte finalità di pubblica utilità (e d’altronde un politico professionista ai lavori pubblici non poteva dire altrimenti). Tuttavia, la sua cultura, a cui si sposa la corretta visione per la necessità di creare ricchezza come unico strumento per crescere e creare lavoro, viene squalificata nel momento in cui propina la solita trita e fallimentare ricetta degli investimenti pubblici, anche se di medio termine (sono sempre di “medio termine” ma in pratica cronici). Si tratta di pianificazioni che in realtà hanno già indirettamente contribuito alla distruzione della piccola e media impresa sarda.
Torniamo ai dati: oltre il 65% della ricchezza prodotta in Sardegna da lavoro dipendente deriva dal settore pubblico. Stiamo bruciando più di quello che sappiamo costruire. Un sistema simile è destinato al baratro.
Da qualsiasi angolatura o con qualsiasi ideologia si voglia leggere la situazione, piaccia o non piaccia, la soluzione ai mali dell’isola, a partire dall’assistenzialismo, passa inevitabilmente per una stagione di massicce riforme liberali.
Meno politica, più mercato.
Meno salotti no-global, più olio di gomito.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
Caro Bomboi,
per quel poco che ne capisco sulle problematiche quì trattate vedo che, con la abituale competenza (è quanto quì si evince anche da parte di un ignorante come il sottoscritto, e ti garantisco non esser mio costume usare il miele in queste circostanze!), hai fatto, facilmente, la figura del “maestrino” nei confronti dei due “scolaretti” Muroni Antonio e Maninchedda Paolo che, credo, saran costretti a venire accompagnati dai lor gestori di patria potestà.
Ma, la ragione per la quale ho inteso prendere in mano la tastiera, risiede nella considerazione che portasti circa il latte.
Ebbene, sorprendentemente ti chiedi: “Perché in Italia vi è una larga ostilità alla trattazione di latte in polvere (a cui è stata semplicemente sottratta l’acqua)?
A Bombò (e, te lo dico in dialetto romanesco), maghestaddì! Ma, grazie a Dio, ti rimando ed a gran voce! E spero che i Sardi mai si prestino a questo giuoco sporco!
Ma, hai tu mai assaggiato il formaggio prodotto (secondo regolamentare etichetta) con latte in polvere? Io (che però ho una capacità di “gustare” il cibo molto sviluppata), quando una decina d’anni fa ebbi ad acquistarne un bel pezzo al supermercato, ho sentito prima sui denti (pensa) e poi su lingua e papille gustative, che NON POTEVO MANDAR GIU’ QUELLA PORCHERIA!
Qualunque persona vissuta, sa bene che l’inganno è sempre dietro l’angolo! Figurati poi cosa succederebbe, oggi a quella polvere, nei vari e tanti passaggi industriali! In ognuno di essi, dietro la guida del solito preparatissimo nucleo di chimici, ci si infilerebbe un pezzo della propria inventiva! Solo finalizzata al maggior profitto! Con il risultato di ottenere una ancor peggiore “porcheria” non commestibile!
Riguardo la polvere, ricordo mi si diceva che a cavallo degli anni 50/60 (mi pare) fu scoperto uno dei primi scandali sulla sofisticazione alimentare in Italia, commesso dalla prima azienda piemontese (che ancora ha un gran Nome), operante nella sua propria nicchia: aggiungeva polvere di osso animale al suo prodotto!
Ecco, quì mi permetto d’esser io a mandarti dietro la lavagna, senza voler fare il maestro però!
Lascia perdere il latte! Che i nostri grandiosi Produttori Sardi ce lo conservino proprio così come è stato loro tramandato da stramoltissime migliaia di anni! E che non si mettano ad annaffiare e trattare i loro terreni come fanno quì in Continente: essendo questo il motivo per cui quì il latte risulta annacquato.
E, se lo vorrai, un giorno mi potrò anche accingere a contartele tutte! Quelle migliaia di anni.
mikkelj