Indipendentisti: da Gonnosfanadiga a Siniscola. Facciamo il punto

Da Gonnosfanadiga a Siniscola l’indipendentismo ha dato prova di virtù e compattezza, ma anche di retorica, debolezza e protagonismo. Quella sarda è una delle minoranze nazionali con il più alto numero di partiti al mondo, divisi dalle bandiere più che dai contenuti, e politicamente inconsistenti. Vediamone le ragioni, con qualche idea per uscire dallo stallo – Di Adriano Bomboi.

In un sol giorno, il 25 marzo, l’indipendentismo ha dato prova di virtù e debolezza.

Virtù, perché tutte le principali sigle di questo spazio politico, sardisti e Unidos inclusi, hanno preso parte alla manifestazione di Gonnosfanadiga per contrastare l’attacco alla proprietà privata: dove lo Stato, contro ogni logica di mercato, vorrebbe espropriare terreni privati, ad uso agricolo, per farvi impiantare installazioni deputate e produrre energia da fonti rinnovabili, spesate dai contribuenti (come se non esistessero altri terreni idonei a tale scopo). E pazienza poi se vari sindaci sardi, anch’essi presenti alla manifestazione, non hanno compreso che non si dovrebbe manifestare con la stessa bandiera dello Stato criticato. Diamo tempo al tempo. Il presidente dell’ANCI sarda Emiliano Deiana ha giustamente osservato che in questa circostanza la presenza dei nostri piccoli amministratori non era affatto scontata.

Questo momento di unità è proseguito anche a Siniscola, dove l’indipendentismo, accompagnato dalla presentazione dell’ultimo libro del politologo Carlo Pala, grazie ai sardisti locali, si è trovato a condividere un momento di dialogo in vista delle prossime sfide che il Popolo Sardo dovrà affrontare.

Tutto bene quindi?

Niente affatto.

Sia a Gonnosfanadiga che a Siniscola è andata in scena l’ennesima dimostrazione della debolezza indipendentista: nessuno ci ha ancora spiegato a cosa servano bandiere e volti diversi che si fanno portatori di temi e intenti praticamente identici. Si tratta, per la maggiore, di gruppi dotati di un leader che non accettano neppure di sottoporsi a delle primarie, unico strumento capace di far emergere programmi e competenze dotati di un barlume di legittimità.
Ogni occasione di concordia finisce così per trasformarsi in una passerella di retorica, dove discorsi autoreferenziali, privi di contraddittorio, rimandano a un non meglio precisato futuro collaborazioni politiche che nei fatti continuano a latitare. Questa dinamica finisce per ricreare gli stessi errori con cui l’indipendentismo, ad ogni tornata elettorale, perde occasioni preziose per affermare la propria presenza nelle istituzioni dell’isola. E ciò avviene anche perché nei territori, da Gonnosfanadiga a Siniscola, questa frammentazione di forze contribuisce a far si che non nasca alcuna piattaforma civica capace di operare nell’interesse delle comunità.

L’indipendentismo sardo, o forse dovremmo chiamarlo “egocentrismo sardo”, rappresenta oggi una delle minoranze nazionali con il più alto numero di partiti al mondo. Sulla cui efficacia elettorale, più di ogni altra cosa, dovremmo stendere un velo pietoso.
Del resto, dai loro temi, intrisi di “giustizia sociale”, continua a mancare un baluardo essenziale: non solo la lingua sarda o la riforma dello Statuto regionale, che non saprebbero come modificare, ma anche la proprietà privata, oggi sotto attacco da una cultura pianificatrice, fiscale, burocratica e assistenziale che ha divorato le capacità produttive dei sardi, perpetuando le condizioni della nostra subalternità alle istituzioni italiane.
Non a caso, assieme al personalismo, l’ideologia di sinistra radicale è oggi il più grande limite di questo ambiente politico.

Su questo limite continua inoltre a perpetuarsi un nuovo tipo di cleavage, una frattura politica, non tra centro e periferia, ma tra indipendentisti e sardisti, perché questi ultimi, a differenza del radicalismo dei primi, ottengono risultati elettorali. Il confine delle opposte strategie, che vedono i sardisti allearsi coi partiti italiani, a scapito delle riforme da effettuare, ha oggi in Anthony Muroni l’ennesimo strumento di polemica. Da un lato abbiamo infatti sardisti affini al messaggio conciliatore di Muroni, mentre lo stesso Muroni continua a dichiarare pubblicamente che non si candiderà alla guida della Regione, benché stia conducendo una vera e propria campagna elettorale in chiave identitaria. Dall’altro, abbiamo sardisti affini alla classica strategia oggi impersonata da Christian Solinas: molto pragmatica, dotata di basso profilo e poco riformista, comunque capace, a differenza delle altre componenti indipendentiste, di portare a casa dei risultati elettorali.

Entrambe le fazioni, eletti e non eletti, finiscono per non apportare alcun serio contributo all’avanzamento economico e culturale della Sardegna, lasciando campo libero alla riorganizzazione degli avversari.

Che fare? In assenza di cambiamenti (fusioni e primarie), forse bisognerà riflettere su un progetto completamente nuovo, che non si ponga il problema di trovare un accordo coi rituali di un ambiente politico così inconcludente e dedito a parlarsi allo specchio, per dialogare direttamente coi sardi  e con le realtà produttive oggi abbandonate al loro destino.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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