La questione sarda nella questione europea
Mentre gli Stati europei disconoscevano il diritto all’autodeterminazione delle minoranze nazionali, l’Europa adottò diversi strumenti per dare rappresentanza e sostegno economico a Regioni attraversate da queste minoranze, ma senza successo. La Sardegna è un esempio del fallimento di questa linea, perché la politica e i fondi sono diventati strumenti con cui perpetuare clientelismo e assistenzialismo – Di G.B. Sanna.
Nell’ultimo trattato dell’Unione Europea, tra i vari punti, si preservò il principio per cui la sua evoluzione dovesse contemplare lo sviluppo regionale. E ancora oggi ciò appare inevitabile.
La Regione Autonoma della Sardegna, fulcro della Piastra Logistica Euromediterranea, è strettamente collegata alla globalizzazione, cardine delle scale di valore che permeano le dimensioni nazionali. Ma fino a un certo punto…
Sin dal Trattato di Roma del 1957, i fondatori del sogno europeo si misero il problema di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni europee, al fine di ottenere una crescita armoniosa ed equilibrata di tutti gli Stati aderenti al patto. Sorse quindi l’obbligo di individuare le capacità produttive e di indirizzo creando diversi obiettivi per i diversi territori.
In parallelo, la Regione sarda, scaturita dall’assetto repubblicano italiano, isola del Mediterraneo, tipica “nazione senza stato”, fu dotata di autonomia come strumento per promuoverne lo sviluppo.
Il processo europeo spinse a garantire il rispetto delle singole specificità nazionali e condusse al riconoscimento degli spazi autonomistici, complice il favorevole clima internazionale sorto dopo i due conflitti mondiali. Ma a differenza del versante esterno, in quello interno i governi hanno sempre evitato di assecondare serie richieste di autodeterminazione da parte delle minoranze interne ai propri confini.
La Sardegna non è mai stata Italia. Molti territori dell’Unione Europea possiedono proprie specificità etniche, linguistiche, economiche e geografiche: Fiandre, Catalogna, Paesi Baschi e Scozia sono solo alcune delle “nazioni senza Stato” costrette entro istituzioni a cui anche sentimentalmente non appartengono.
Oggi le spinte autonomistiche hanno raggiunto toni molto tesi in Gran Bretagna, Spagna e, seppur meno, anche in Italia. Spagna e Italia hanno Regioni con un’autonomia speciale di rango costituzionale. Ma nonostante il mancato riconoscimento del loro diritto alla statualità, l’Europa cercò di armonizzare le economie di queste comunità, in particolare attraverso il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), che dal 1975 in poi basò la sua filosofia sul sostegno a territori dotati di significative particolarità da accrescere. Più tardi, la Sardegna fu interessata dall’Obiettivo 1, cioè tra le aree preminenti a cui destinare aiuti. Tutta l’azione comunitaria si fondava e anche oggi si fonda su interventi perequativi delle differenze locali. Nel 1984 furono istituiti i Contratti di Programma, mentre nell’anno seguente il regolamento con i Programmi Integrati Mediterranei riconobbe il ruolo delle Regioni come Beneficiari Finali dei finanziamenti.
Col tempo sono nati diversi organismi per dare voce alle esigenze dei vari territori europei, come l’Association of European Border Regions (del 1971), o la Conference of Peripheral Marittime Regions in Europe (del 1973). Con il trattato di Maastricht si ebbe l’implicito riconoscimento delle realtà “subnazionali” all’interno della Comunità Europea. Con l’art. 146 EEC fu permesso alle rappresentanze regionali di prendere il posto dei ministri degli Stati membri nel Consiglio dei Ministri, e dal 1994 al 1998 fu creato il Comitato delle Regioni. Gli Stati devono rispettare le identità e le prerogative degli Enti Regionali e renderli partecipi dell’attuazione delle politiche europee. Per la prima volta l’Europa impose l’obbligo giuridico di chiedere il parere dei rappresentanti delle collettività locali sulle questioni che le riguardano direttamente. I membri del Comitato delle Regioni, oggi 350: presidenti di Regione, sindaci, presidenti di consigli comunali e regionali, misero in evidenza che il principio di sussidiarietà doveva determinare la suddivisione di poteri e competenze tra gli Stati e le entità locali. Per il principio della sussidiarietà le decisioni devono essere prese dalle istituzioni locali e non da un ente remoto e centralizzato, che con il suo comportamento impedirebbe di mantenere il contatto tra Bruxelles e i suoi cittadini, in quanto, tanto più ampie saranno le competenze comunitarie, tanto più i cittadini avranno la tendenza a ricercare le proprie radici in seno alla propria comunità regionale. E in effetti, “L’unità nella diversità” fu il motto che marchiò la nuova Unione Europea. Eppure né l’assistenzialismo economico e né la politica sono stati in grado di risolvere i ritardi dell’isola, dove sprechi, dumping agroalimentare e mancate programmazioni sono all’ordine del giorno.
È compito assoluto della Regione Autonoma della Sardegna confrontarsi con la dimensione europea e nazionale per costituire partenariati orizzontali e verticali, con il coinvolgimento di tutti i livelli amministrativi. Ma al netto di tali propositi, sin’ora la Regione Autonoma della Sardegna non ha mai esercitato alcuna concreta iniziativa in questa direzione. E non si è mai visto un rappresentante sardo seduto al tavolo di trattative internazionali, nonostante questa possibilità, seppur avocata al consenso del governo, sia riconosciuta dallo Statuto autonomo regionale e dal Titolo V° della Costituzione italiana.
Il Presidente della nostra Giunta regionale, in quanto rappresentante della Sardegna, per le funzioni che gli competono, avrebbe potuto sollecitare in Europa la richiesta di maggiore autonomia. E malgrado l’iniziativa possa ridursi sul solo piano simbolico, anche denunciare alla Corte Europea di Giustizia tutte le vessazioni che la Regione ha subito e continua a subire dalla Repubblica Italiana in materia di continuità territoriale, politica industriale, opere infrastrutturali e risorse economiche.
Il Presidente della Giunta dovrebbe fare in modo che in ogni luogo dove la Sardegna ha rappresentanza venga gridata la necessità della creazione dello Stato sardo. Del resto lo Stato si dimentica persino le sue leggi, come la n. 42/2009 su coesione e gap infrastrutturale. Politicamente parlando, oggi si tratta di far esplodere le contraddizioni fra Stato e Regione, nell’ottica di immaginare la Sardegna come nuova entità statuaria rispetto alla Repubblica Italiana e con l’Unione Europea.
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