Progetto Autoderminatzione: un commento economico al programma
Progetto Autodeterminatzione: un commento economico al programma.
Gli indipendentisti promuovono la piccola impresa, già dominante nell’isola, ma anche l’art. 18 superato dal governo Renzi, che con la piccola impresa c’entrava ben poco. Tra una confusione e l’altra, più che con indipendentisti, pare di avere a che fare con la brutta copia di “Liberi e Uguali”, partito della sinistra italiana. Ma ci sono anche elementi importanti che fanno presagire un buon cambio di rotta rispetto al passato.
Vediamone alcuni, con una premessa elettorale – Di Adriano Bomboi.
Premessa: pur augurando un ottimo risultato agli amici indipendentisti che hanno scelto di promuovere “Progetto Autodeterminatzione” per le elezioni del 4 marzo, questo spazio ritiene che non esistano gli estremi, a partire dal simbolo (“su carrabusu”), dai candidati (quasi tutti funzionari pubblici) e dalla legge elettorale, oltre che dalle proiezioni sondaggistiche, per sperare in un valido risultato che non si trasformi in un danno di immagine per l’intero indipendentismo. Ragion per cui ci concentreremo verso una critica costruttiva del progetto, con l’auspicio di potervi collaborare nel corso delle prossime elezioni regionali.
Da cosa partirebbe un’economista nell’osservazione di un territorio in crisi oltre ai dati che lo riguardano?
Intanto da alcune osservazioni di base. Ad esempio sappiamo che in occidente il settore primario (l’agricoltura) rappresenta quello a minor valore aggiunto. Cioè quello che rende meno, soprattutto alla piccola impresa, che vive di sussidi, e ne riceve anche meno e tardi rispetto ai grandi gruppi. Pensate che in Emilia Romagna, terra di note imprese agroalimentari, il settore vale appena il 2% circa del PIL regionale.
Il secondario (l’industria) è invece quello che garantisce un maggior tasso occupazionale (sebbene i grandi gruppi siano ormai restii ad investire in aree dagli elevati costi energetici e del lavoro). Resiste invece il settore manifatturiero ma in precise località specializzate e munite di una filiera di finitura del prodotto (come in Veneto).
Il terziario (avanzato) è invece il settore più dinamico di quest’epoca, l’innovazione ha la capacità di trainare un’alta remunerazione e si basa sull’alta specializzazione dei suoi operatori.
Come si pone il programma di Progetto Autodeterminatzione rispetto a queste osservazioni?
Concentriamoci su alcuni passaggi chiave. Affermano i promotori: “Pensiamo che il valore della microimpresa e dell’imprenditoria diffusa sia centrale”, e che “disapprova le politiche del lavoro attuate dal Governo italiano, dal Jobs Act all’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”.
Domande agli amici di Autodeterminatzione:
Perché solo microimprese? Rappresentano già la realtà della fragile economia sarda, oltre al fatto che l’eccesso di nanismo aziendale può costituire una serie di problemi (ad esempio fragilità finanziaria/assenza di investimenti/mancata diversificazione dei prodotti).
Ma soprattutto: cosa c’entra l’art. 18 (inerente aziende oltre i 15 dipendenti) con la microimpresa che si vorrebbe “diffondere”?
Ovviamente nulla, sarebbe una contraddizione.
Inoltre, quante e quali aziende usufruivano dell’art. 18 prima della riforma Renzi?
Ve lo dico io: ben poche, come Meridiana. In Sardegna persino tante aziende agricole hanno meno di 5 dipendenti.
La crisi dei ceti più deboli in Sardegna non deriva dall’assenza di tutele sul lavoro (da cui erano largamente esclusi anche in precedenza) ma dall’assenza di lavoro vero e proprio. Dunque il problema dell’isola riguarda la sua capacità di produrre valore aggiunto, cioè di produrre ricchezza (altro che “vertenza entrate” per recuperare gli spiccioli).
Queste considerazioni ci fanno comprendere che il programma non pare scritto da indipendentisti competenti sui dati economici della nostra terra, ma da confusi simpatizzanti della sinistra radicale italiana su contesti che non riguardano l’isola (e magari neppure la penisola).
Ed è un grave problema culturale.
L’intero programma presenta l’agricoltura come epicentro del cambiamento, ma come abbiamo visto in apertura, equivale a puntare sul cavallo perdente. Pur considerando la necessità di migliorare qualità e quantità delle nostre produzioni, venendo incontro alle difficoltà delle campagne.
Ciò nonostante, ci sono anche aspetti positivi.
Veniamo al tema del federalismo interno. Progetto Autodeterminatzione dice che: “Il modello centralistico – che vede tutto concentrato a Cagliari – dovrà essere smantellato a favore di una strategia di assistenza, presenza e collaborazione nei comuni da parte degli uffici urbanistici e della programmazione della Regione. Questi Enti, peraltro, devono essere ridotti di numero e razionalizzati.
Il centralismo degli enti e delle strutture regionali deve essere ridimensionato e reso più funzionale al nuovo modello di sviluppo che dovrà rendere i tempi delle decisioni compatibili con i tempi delle imprese e quelli dei cittadini.
Passare quindi da una pesante burocrazia regionale a una struttura diffusa funzionale ed efficace che abbia soprattutto il compito di coordinare e di sostenere l’autogoverno delle comunità locali, e non di soffocarle.”
E’ un passaggio di notevole importanza, malgrado tutto il programma sia ancora attraversato dalla mania costruttivista di pianificare dall’alto persino la dimensione delle aziende, si è almeno compreso che il modello di gestione verticistica con sede a Cagliari ha fallito ed ha contribuito al fallimento delle zone interne.
Si tratta tuttavia di un passaggio non sviluppato, perché l’autogoverno di un territorio non si ottiene spostando semplicemente uffici e competenze. Snellire la burocrazia è importante ma non sufficiente. Cosa manca?
Il federalismo fiscale: le zone interne dovrebbero avere un fisco più basso rispetto alle aree costiere, onde attirare investimenti al posto di assistenziali cattedrali nel deserto.
Si chiama “fiscalità asimmetrica”, e la Svizzera ne esprime il maggior esempio al mondo.
Veniamo ad un tema caldo, la presenza militare. Autodeterminatzione propone: “Progressivo smantellamento dei territori destinati alle esercitazioni militari” e “Politiche di reinserimento lavorativo concreto verso chi è impiegato direttamente o indirettamente nel settore militare.”
In Scozia l’SNP ha lavorato per la riduzione e non per lo smantellamento delle basi militari, ma anche per una tutela dei propri addetti. In Sardegna vogliamo continuare ad urlare “a foras” senza alternative a migliaia di sardi? Vogliamo un’isola senza difese?
Fate voi.
Passiamo a mobilità e trasporti, afferma il programma: “Riguardo la mobilità verso altre nazioni e continenti, siamo per un sistema che assicuri a spese dello Stato una mobilità civile fra la Sardegna e le terre vicine, cioè l’Italia ma anche la Francia, la Spagna e il Nord Africa sul piano marittimo, l’Europa tutta e la Penisola sul piano delle tratte aeree. Siamo per la fine dei monopoli italiani sulle vie marittime e aeree e per un sistema concepito prima di tutto in base agli interessi dei Sardi.”
Autodeterminatzione chiede la fine dei monopoli sui trasporti ma chiede che lo Stato si faccia interamente carico dei trasporti stessi? Cioè si propone un’estensione dei monopoli?
Evidentemente i casi di Alitalia e di Onorato non hanno insegnato nulla e non si ha la più pallida idea di come sviluppare un mercato concorrenziale dei trasporti.
Passiamo infine ad un punto fondamentale, l’istruzione e l’università. Autodeterminatzione ritiene che “La cultura, l’istruzione, la lingua saranno parte integrante e strategica del nuovo modello di sviluppo. Devono essere sviluppate politiche per limitare la dispersione scolastica, elevare il numero degli studenti diplomati e laureati.”
Fortunatamente, anche nell’ottica di sviluppare il settore secondario e terziario di cui parlavamo in precedenza, Autodeterminatzione ha ben chiaro che il futuro della Sardegna arriverà solo quando ad una massa di giovani dequalificati sapremo anteporre giovani formati ad affrontare realmente il mercato. Ciò che non è stato segnalato è che, per l’appunto, non basta migliorare la quantità dei laureati ma la loro qualità, diversificandone la formazione.
Ad esempio, abbiamo tanti laureati in materie umanistiche, del tutto fuori mercato, e pochi laureati in discipline scientifiche, una delle varie ragioni del nostro declino.
In conclusione, l’indipendentismo che si affaccia al 2018 ha inserito nella propria narrazione la battaglia all’assistenzialismo e alla comprensione del valore dell’impresa, del mercato e della formazione nelle dinamiche che portano allo sviluppo, un piccolo avanzamento culturale promosso negli anni da questo spazio.
Sfortunatamente tali temi sono espressi in modo marginale e superficiale all’interno di un programma fortemente dirigista. Troppo poco per poter dare credito ad un progetto che, qualora realmente applicato, non avvicinerebbe la Sardegna agli standard europei ma al modello di alcuni Stati africani, dediti all’agricoltura e alle energie rinnovabili. Incapaci di sviluppare un’organica diversificazione del proprio mercato, con tutte le gravi conseguenze sociali del caso.
Attualmente i nostri leader appaiono impreparati a gestire un cambiamento. Forse dovremmo discutere di questo prima di intraprendere avventure elettoralistiche con scarse possibilità di successo.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
Mi pare un buon contributo per la discussione e il miglioramento del programma di questa nuova coalizione, nata rivedendo personalismi e visioni settarie. La strada è quella giusta. Per quel che mi compete, da insegnante in pensione, direi che le osservazioni su scuola e università sono giuste. Devo, poi, anche dire che la tutela di chi lavora nel settore militare va perseguita di pari passo allo smantellamento di molte delle servitù militari attualmente presenti, come giustamente sostenuto. Ma, dati gli interessi in gioco, non è questione di pochi anni.
Concordo pienamente con Adriano, i nostri indipendentisti sono semplicemente dei progressisti radicali in salsa locale, che hanno trasformato in ideologia il loro rancore verso tutto ciò che arriva dall’Italia, compreso il loro stipendio da dipendenti pubblici.
Ho potuto scoprire da certi studi sul valore della riconoscenza, che chi è riconoscente nei confronti di una persona, azienda o istituzione, ne riconosce la qualità e il valore.
Quando il sentimento della riconoscenza viene capovolto, cioè si è irriconoscenti nei confronti di chi o cosa, non gli si riconosce più un valore, anzi, lo si nega, perché si ritiene che l’altro abbia ottunuto un vantaggio immeritato, ingiusto.
In questi casi si sta provando un sentimento di invidia nei confronti di chi dispone di una qualità o è stato avvantaggiato dalla fortuna.
E’ l’invida il sentimento più distruttivo che colpisce molti degli indipendentisti, che considerano tutto ciò che è stato genrato dalla penisola un male assoluto, l’alibi ingannatrice per dire che, per colpa dell’Italia, i sardi soffrono e sono più poveri.
Purtroppo per loro le ideologie sono un falso assoluto, perché vogliono imporre come giusto e universale l’interesse di una sola parte.
Con mio grande rammarico, dopo aver frequentato per diverso tempo il mondo indipendentista, ho potuto constatare quanto esso sia saturo di invidia e rancore, che impedisce ai vari sacerdoti, votati a una causa persa, di ragionare con lucidità e di avere un consenso che vada oltre lo zero virgola.
L’invidioso non è un ladro, ma un distruttore della felicità e dell’entusiamo altrui.
Non sarà un caso, ma il mondo indipendentista non vuole che altri al di fuori di loro possano parlare della causa e delle tradizioni sarde, quasi esse siano icone religiose, manipolabili solo dai grandi druidi, dotati di poteri speciali, che conosco la liturgia e la verità assoluta.
Le scorse elezioni regionali hanno visto i massimi sacerdoti al lavoro per distruggere ogni possibile convergenza politica che potesse disubbidire ai crismi del pensiero unico indipendentista.
Il pensiero unico indipendentista, come quello internazionale, prevede il pubblico ludibrio nei confronti di qualunque eretico, condannato a un suo allontanamento, e constringendo chiuque a non rivolgerli più la parola.
Se la costruzione ideologica nella quale i più radicali sono riusciti a trovare un accordo in merito alle politiche del prossimo marzo, lo si deve solo al fatto che è prevalso il Pensiero Unico indipendentista, progressista, reazionario e resistente a qualsiasi compromesso, fieri della loro purezza, dove anche il PSDAZ è stato accusato di collaborazionismo, vista l’alleanza elettorale e politica con la Lega, che certamente raccoglierà molti più volti della coalizione dei manichei.
Ecco perché non credo ad una parola delle loro promesse elettorali, buone solo per dividere e affamare ancor più il popolo sardo.
Non ho mai conosciuto un progressista (per non dire di sinistra)capace di creare un’economia del profitto, la parola d’ordine è la Rendita o al massimo lo stipendio.
Come possiamo fidarci di un manipolo di dipendenti pubblici che odiano il sistema Italia ma ipocritamente ne traggono solo vantaggi?
L’indipendentismo in Sardegna non è mai stato in grado di attrarre consenso, per colpa di irriducibili sacerdoti che difendono il loro terriorio politico come fossero cani maremmani con il loro gregge.
La maggior parte sono degli anarchici mancati, che non riescono a tollerare alcuna regola, norma o istituzione che sia, la libertà è un’esclusiva riservata solo a loro, perché rappresentano l’ultimo baluardo alla modernizzazione della Sardegna.
Lo stato italiano pur pieno di contraddizioni, non può essere liquidato da soli, perché se solo conoscessero il funzionamento delle istituzioni, saprebbero che queste non possono essere annullate ma riformate, certamente in senso federale, dove tutte le culture e i diversi interessi possano essere rappresentati, ma non con un’ideologia vetusta e pericolosa come la loro.
Lo stesso spot elettorale rappresenta bene il loro disprezzo per tutto ciò che viene dall’Italia, una vera vergogna, inqualificabile e assurda.
Per fortuna la loro proposta e presentazione non verrà accolta dal popolo sardo, stufo di vivere una situazione che sta andando avanti da troppi anni, ma ancor più infastidita da un’idea malsana di Sardegna che proviene da falsi profeti.
Non è pensabile parlare di economica e sviluppo se non si è mai studiato l’argomento e ci si è confrontati con gli addetti ai lavori, poi mi parlano di federalismo…
Avessero chiesto a qualche grande imprenditore cosa occorrerebbe per migliorare l’economia, niente di tutto questo, la micro azienda è l’unico modello di sviluppo, che assomiglia molto la malsana idea di certi ambientalisti, che vogliono convincere i popoli poveri dell’Africa a mettere sopra le loro capanne dei pannelli fotovoltaici anziché investire negli idrocarburi loro accessibili: pezzenti che usano energie pulite per non fargli cambiare il loro habitat di miseria.
Sinceramente non sarò il solo a non dargli il voto, così come la maggior parte dei sardi, che con percentuali bulgare voteranno altrove.
[...] da domandarsi se, come ampiamente ricordato su questo spazio in un precedente articolo a proposito del progetto “AutodetermiNatzione” guidato da Anthony Muroni, questi signori [...]
[...] volesse rileggere lo scorso commento economico al programma di Autodeterminatzione capirà facilmente che i suoi promotori ignoravano persino [...]
[...] gli indipendentisti di Autodeterminatzione cascano sullo stesso ritardo culturale, chiedendo che lo Stato si faccia carico delle spese per i trasporti. Forse oggi non se ne fa già carico? E [...]