Il rebus di una coscienza politica sarda
I movimenti politici che hanno fatto propria la battaglia per una maggiore sovranità della Sardegna sono stati fin troppo spesso anche i partiti del NO a tutto. Sono stati i partiti dell’ostilità all’industria, alle infrastrutture strategiche e agli investimenti nel settore alberghiero. […] La quintessenza di una politica ideologica incapace di essere pratica ed incline ai compromessi.
Di Luca Tolu.
I risultati del referendum del 2016 in cui, con il 73% dei voti, la Sardegna bocciò sonoramente la riforma costituzionale di Matteo Renzi – una proposta che modificava in senso più centralista i rapporti tra stato e regioni – vennero interpretati da alcuni come una sorta di risveglio politico “sardista” dell’isola. Si disse che i sardi, intravisto il pericolo di una deriva romano-centrica, decisero di respingere senza appello una riforma che “minava l’autonomia dell’isola”.
Fu un’interpretazione giusta, oppure fu una visione di comodo? Una visione che un po’ a tutti, politici, commentatori ed élite intellettuali, piaceva diffondere per colorare con la bandiera dei quattro mori la vittoria contro il referendum?
Altre elezioni ed altre conclusioni: poche settimane fa, alle votazioni politiche italiane, risultato impressionante del Movimento 5 Stelle con il 42% dei consensi, malissimo il PD attorno al 15%, tiene il centrodestra al 31% e non raggiunge nemmeno il 3% il progetto indipendentista di Anthony Muroni. Vince così il partito di Grillo, un movimento che non ha mai abbracciato battaglie federaliste o di maggiore autonomismo per l’isola, un progetto politico tra i più dirigisti dell’intero palcoscenico politico italiano. Soltanto il 13% dell’accoppiata Lega – Partito Sardo d’Azione fa segnare un importante punto alle sensibilità sardiste, anche se è difficile scorporare da questa percentuale i consensi strettamente salviniani.
Dobbiamo quindi desumere che la precedente interpretazione del risultato referendario era sbagliata e che i sardi non vedono di buon occhio un maggiore autonomismo?
Difficile dare delle risposte esaustive a queste domande, ma di certo, generalizzare e trarre facili semplificazioni di convenienza, non aiuta a capire i fenomeni. Vediamo allora di compiere due riflessioni attorno alle domande sopra esposte.
Partendo dalle analisi elettorali, in Sardegna, come in tutto il mondo, ad eccezione di militanti o elite intellettuali, buona parte degli elettori non vota sulla base di ideali o complesse riflessioni sui massimi sistemi, ma pensando al quotidiano, agli aspetti economici più immediati e alle questioni più vicine alla vita reale delle persone, come l’età pensionabile o l’attrattività di proposte assistenzialiste come il reddito di cittadinanza. Pertanto, gli appuntamenti elettorali citati sono stati verosimilmente affrontati da parte degli elettori in termini di contrapposizione al sistema e ad un governo a guida Partito Democratico che non riusciva a fornire le giuste risposte in termini economici. Di conseguenza, soltanto in parte la questione sarda è entrata in gioco nei risultati del referendum costituzionale, cosi come non ha quasi toccato palla nei risultati delle elezioni politiche ad eccezione del risultato, certamente importante, ottenuto dal Psd’Az.
Ciò non deve, tuttavia, portarci a sottovalutare, in previsione futura, il potenziale politico di quella che Giovanni Battista Tuveri aveva per la prima volta battezzato come “questione sarda”. Anche in questo caso a parlare sono i numeri: da quanto emerge da una ricerca dell’Università di Cagliari del 2012 “sono addirittura nove su dieci gli abitanti della Sardegna che vorrebbero un governo locale con più poteri”. Sono sardi che non solo chiedono più autonomia economica e fiscale, ma nel 40% dei casi vorrebbero addirittura l’indipendenza. In un’altra ricerca, questa volta più recente e risalente al 2014, il dato dei sardi pronti al separatismo sarebbero addirittura il 45%.
Esiste quindi un sentimento recondito, quasi antropologico, che unisce la maggior parte dei sardi in una coscienza incompiuta politicamente, ma viva culturalmente e socialmente. Una cognizione più volte studiata da politologi e sociologi internazionali che, non ha caso, hanno inserito la Sardegna nell’elenco delle “nazioni mancate”. Un impulso rimasto inalterato da millenni e che, citando Bachisio Bandinu e utilizzando una parola della lingua sarda, possiamo definire come “appartenentzia”.
A questo punto della riflessione occorre unire i punti sopra esposti e cercare di rispondere alla domanda più importante: perché ad una coscienza nazionale sarda, a questa “appartenentzia”, non corrisponde una comune coscienza politica? La risposta potrebbe essere più semplice di quanto si possa immaginare e ruota proprio attorno al bisogno di fornire soluzioni concrete alle istanze che provengono dal basso e da un elettorato che chiede di risolvere gli enormi problemi economici, infrastrutturali ed occupazionali della Sardegna.
Infatti, i movimenti politici che, in modo estremo, hanno fatto propria la battaglia per una maggiore sovranità della Sardegna sono stati fin troppo spesso anche i partiti del NO a tutto. Sono stati i partiti dell’ostilità all’industria, alle infrastrutture strategiche e agli investimenti nel settore alberghiero. Sono stati e sono tutt’oggi i capipopolo di un’ostilità militante alle basi militari che lascia dietro di sé, in quei territori lasciati liberi dai militari, il deserto economico. Sono la quintessenza di una politica ideologica incapace di essere pratica ed incline ai compromessi: una politica che impaurisce gli elettori che non sono disposti a mettere a rischio quel poco di economia presente in Sardegna sacrificandola sull’altare di una miope dottrina alienata dalla realtà.
Per far attecchire un’offerta politica sarda nel terreno fertile della forte e radicata coscienza culturale e sociale sarda, occorrerebbe costruire un progetto che, oltre ad essere federalista, sardista e/o sovranista, sia soprattutto in grado di offrire soluzioni reali per invertire la crisi economica che attanaglia l’isola e che sta spopolando i comuni dell’interno e costringendo ogni anno migliaia di giovani sardi ad abbandonare la propria terra. In poche parole, al sardismo marxista, capace di portare avanti soltanto battaglie immaginifiche sui NO, occorre contrapporre un “sardismo liberale” del “fare”, che sia capace di dire Sì agli investimenti, alle infrastrutture, parlare di competitività, di sburocratizzazione e di creare sviluppo sfruttando le straordinarie risorse naturalistiche, culturali, storiche e archeologiche dell’isola.
Il rebus di una coscienza politica sarda ha quindi una chiara soluzione, ed è una soluzione economica. Perché ad un sardo disoccupato occorre in primo luogo proporre una concreta offerta politica che lo aiuti a trovare un’occupazione, e solo successivamente una proposta di riforma delle istituzioni che garantisca più sovranità per la Sardegna.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
In poche parole, l’autore dell’articolo vedrebbe di buon occhio l’affermarsi di un indipendentismo che socialmente, economicamente e politicamente ricalcasse paro paro la politica fin qui perseguita da decenni e che ha cagionato i danni che l’indipendentismo dovrebbe sanare. Insomma, un loop logico.
Non ho mai letto un’analisi così semplicistica come questa.
Analisi condivisibile. Il progetto di una Sardegna libera e prospera nasce solo se però voltiamo pagina! Quelli che ragionano come il signore dell’altro commento hanno fatto più male alla sardegna di quelli che l’hanno governata! Perchè hanno trasformato il sardismo in becero comunismo della peggiore specie!