La Corea, la Siria, la Russia e la ‘teoria del pazzo’

La Corea del Nord ha scelto di sedersi al tavolo delle trattative. Un buon risultato per la politica estera di Trump, che sposa una linea già utilizzata con successo da precedenti amministrazioni USA, e chiamata “teoria del pazzo”.

L’aggressività militare della Casa Bianca premiò Nixon nel portare il Vietnam del Nord alla pace, ma soprattutto Reagan nel suo piano di riarmo contro l’Unione Sovietica, spingendo quest’ultima a dissanguare la propria economia in una corsa agli armamenti che portò al Trattato INF e alla fine della guerra fredda.

Ma è sempre una linea ottimale? – Di Adriano Bomboi.

A differenza della Siria, dove il quadro geopolitico appare di gran lunga più articolato, il caso della Corea del Nord pare rientrare in un preciso filone di approccio tenuto dalla politica estera americana.

Un filone non seguito da tutti gli inquilini della Casa Bianca ma utilizzato in specifiche contingenze internazionali.

Nixon, Reagan e Trump sono stati i principali esponenti ad essersene avvalsi.

In cosa consiste?

Nel trasmettere l’immagine di un’amministrazione disposta all’uso del suo massimo potenziale militare pur di fermare l’avversario del momento, anche a costo di sanguinose perdite per entrambe le parti. Un ruolo impersonato da una figura presidenziale considerata fuori dai classici standard diplomatici, e poco propensa ad ascoltare i prudenti consigli del proprio staff di esperti (i quali in realtà potrebbero essere i registi, assieme ai vertici militari, della condotta presidenziale). Un “pazzo” insomma.

Si tratta di una minaccia, per lo più confinata alla sola dialettica politica, la cui ricaduta militare si sostanzia in tre caratteristiche essenziali: 1) un incremento o una ricollocazione delle risorse destinate all’arsenale bellico; 2) un riposizionamento geografico dei mezzi militari nella diretta prossimità del territorio nemico, con l’obiettivo di sviluppare una pressione politica; 3) un eventuale attacco diretto verso obiettivi militari nemici di secondaria o simbolica importanza, non necessariamente teso a mutare la leadership del Paese nemico.

La misura può produrre benefici politici, ma non di spesa pubblica (come suggerisce Lew Rockwell), sia all’estero che in patria, a seconda dell’intensità con cui viene gestita.

Oggi la Corea del Nord pare essere tornata al tavolo della pace dopo una nuova corsa al nucleare, esercitata a base di test nei mari degli influenti vicini, Seul e Tokyo.

Bisogna tuttavia considerare che anche il governo di Pyongyang si è avvalso di una logica simile e non ci sono pertanto garanzie positive sugli esiti finali del processo di pace. Infatti, nonostante il momentaneo successo di Trump, Kim Jong-un, presidente a vita di un Paese economicamente dipendente dalla Cina, ha utilizzato la minaccia nucleare come strumento per aumentare il proprio peso sia in politica estera che interna. Ottenendo così sia attenzione internazionale, e sia, agli occhi dei nordcoreani, l’immagine di un leader risoluto nel rispondere alla “minaccia di Washington”, concreta o presunta, che circonderebbe il “paradiso socialista”.

Sul piano storico, esistono precisi esempi di successo portati avanti dalla Casa Bianca. Pensiamo a Nixon, considerato il “pazzo” per eccellenza, il quale, ispirato in realtà da un vecchio premier israeliano, Moshe Sharret, intervenne pesantemente in Cambogia con bombardamenti a tappeto, portando poi il Vietnam del Nord ai negoziati di pace del 1973.

Ma soprattutto, il maggiore successo di questa singolare politica estera fu ottenuto da Ronald Reagan, che col suo programma di riarmo e ricollocazione dell’arsenale missilistico contro l’URSS spinse quest’ultima a seguire un esoso programma di confronto con Washington, perdendo infine il braccio di ferro, e dando luogo al Trattato INF del 1987 con cui finì la crisi degli “euromissili”.
Su questo specifico avvenimento esiste un antefatto da ricordare, ossia le ragioni per cui nacque tale crisi: Reagan rilanciò la potenza americana in una fase in cui gli USA, dopo il disastro del Vietnam, apparivano indeboliti sia sul piano interno che esterno. Le precedenti amministrazioni di Ford e Carter, oltre ai temi economici, dovettero confrontarsi con un mondo in cui l’Unione Sovietica seppe cogliere queste debolezze. Sia perché Mosca riprese lo sviluppo del suo arsenale nucleare, e sia tramite l’invasione dell’Afghanistan (1979), oltre il sostegno a movimenti rivoluzionari vari sparsi nel globo. Fu proprio nel 1979 che venne rispolverata la tattica Nixon e la NATO avviò un programma di dispiegamento di missili Pershing 2 e Tomahawk nell’Europa occidentale. Questa tattica trovò attuazione sotto l’amministrazione Reagan, la quale venne accusata dalla stampa e dai Democratici dell’epoca di alimentare una condotta guerrafondaia che avrebbe potuto sviluppare una guerra nucleare.

Mosca corse ai ripari finanziando ingenti manifestazioni pacifiste nell’Europa occidentale, nel tentativo di indurre il governo Reagan (ma anche di Thatcher e alleati) a ritirare i missili, ma si ritrovò obbligata a spendere ulteriori risorse facendole gravare sul bilancio di un’economia, quella sovietica, in pessime condizioni. Incapace di reggere il confronto con i ritmi e la produttività del capitalismo statunitense.

Reagan infatti lanciò anche il cosiddetto programma di “Guerre Stellari”, un cinematografico proposito di creare uno scudo spaziale per arrestare sul nascere la minaccia nucleare sovietica, certo che Mosca, occupata ad inseguire sia i bluff che i reali dispiegamenti USA, sarebbe stata obbligata a capitolare. L’unico quesito pertanto non ruotava sul “come”, ma sul “quando” ciò sarebbe avvenuto.

La storia diede ragione a Reagan, e sotto l’amministrazione Bush avvenne l’implosione dell’Unione Sovietica, con cui finì l’equilibrio del terrore tra le due superpotenze. Ma non prima della sottoscrizione del Trattato INF e del ritiro del contingente russo da Kabul.

Eppure la storia esprime altri precedenti adottati dalle amministrazioni USA. I più importanti riguardano le presidenze di Roosevelt (1933-1945) e Truman (1945-1953) nei confronti dell’esercito imperiale giapponese.
La linea di questi due presidenti presenta alcune assonanze con i fautori della “teoria del pazzo”.
Roosevelt ad esempio fu ben consapevole del fatto che l’efficienza del Giappone all’epoca dell’attacco a Pearl Harbor, durante la seconda guerra mondiale, non sarebbe stata in grado di confrontarsi, nel medio e nel lungo termine, con la produttività bellica del gigante americano, lanciato all’assalto del piccolo ma rigido governo nipponico (il quale subì pure il tagliò delle linee di rifornimento al proprio esercito presso le colonie del sudest asiatico).

Truman invece si spinse oltre, ed utilizzò realmente due bombe atomiche come nuovo strumento per chiudere definitivamente il conflitto nel Pacifico. Un conflitto che, almeno stando alle “giustificazioni morali” sostenute dagli USA, se fosse proseguito, avrebbe comportato ancora ulteriori spargimenti di sangue.
Possiamo quindi domandarci se Truman, essendosi avvalso dell’arma più potente in dotazione alle sue forze armate, sia stato l’unico vero “pazzo” della politica americana. Ciò nonostante, nel corso della successiva Guerra di Corea, con cui la penisola venne spezzata in due (1950-1953), non usò più l’arma atomica, negando il permesso del suo utilizzo al generale Douglas MacArthur.

Gli storici continueranno a dibattere su questo e altri temi. Oggi però dovrebbe farci riflettere un’osservazione di Macron, intervistato da Fox News, in occasione del recente attacco di USA, GB e Francia in Siria, secondo cui Putin sarebbe un uomo intelligente e caparbio nell’espandersi, sfruttando le debolezze altrui. Ragion per cui avrebbe meritato una rapida risposta militare sul terreno.

Tra le righe, il Macron “churchelliano” relega Assad e le presunte armi chimiche a mere comparse mediatiche e ci fa capire che il teatro mediorientale non sarebbe altro che un confronto diretto con la Russia per limitarne l’espansione, giustificando così una politica estera aggressiva, che ha in Trump il suo alfiere. E, com’è comprensibile, avversata da una buona parte degli intellettuali e della pubblica opinione.
Si tratta di una risposta al parziale disimpegno estero avutosi negli anni di Barack Obama?

La storia ci insegna che per ogni nuovo “pazzo” alla guida di un governo, ne emerge sempre qualcun altro che cerca di riportare l’ordine, creando infine un mondo non sempre stabile ma attraversato da periodiche e sanguinose crisi.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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