Arriva l’Assemblea Nazionale Sarda: rendiamola produttiva

Arriva l’Assemblea Nazionale Sarda. Promossa dai sindaci Antoni Flore Motzo e Maurizio Onnis,  preannuncia la nascita di un’organizzazione integrativa e non antitetica ai partiti indipendentisti. Ma questi ultimi che linee dovrebbero abbandonare?

Intanto quella di Paolo Maninchedda: il Craxi dell’indipendentismo ha governato nella Giunta Pigliaru contendendo ai maggiori alleati l’uso della spesa pubblica, lasciando in eredità alla Regione nuovi debiti e nessuna riforma istituzionale. Infine sproloquiando sulla situazione salariale dei sardi.

Ma oltre a questo revival degli anni Ottanta dobbiamo disfarci di tutte quelle linee portatrici di programmi che rappresentano un sottoprodotto del popolarismo e della sinistra italiana. Ad esempio, chi pensa di strappare voti ai pastori che scelgono partiti italiani per avere denaro pubblico, proponendo lo stesso cancro che genera la sovrapproduzione di pecorino, non solo non guadagnerà consensi, essendo lontano dal potere, ma non contribuirà neppure al miglioramento culturale ed economico dell’isola.

E allora di quale indipendentismo abbiamo bisogno?
 
Di Adriano Bomboi.

Nel corso della funesta campagna elettorale, Paolo Maninchedda ha toccato un problema reale: i sardi hanno salari da fame. Un fatto che rispecchia un trend presente nel resto d’Italia. Disgraziatamente, la visione approssimata e superficiale del Partito dei Sardi attribuisce questo fenomeno alla globalizzazione e alla “orientalizzazione del mercato del lavoro”.

Nel mondo reale invece quasi tutta Europa ha salari dignitosi, e persino la Cina ha sviluppato un potente ceto medio, con salari al rialzo rispetto alla situazione italiana.

A cosa è dovuto?

Da anni, alla crescita della produttività.

Ebbene si, non è la globalizzazione a rovinare i salari (asserzione che non significa un tubo), ma la scarsa competitività di una singola economia nel quadro della globalizzazione.

Chiarito questo aspetto, ignoto solo ai dozzinali sociologi italiani, ne rimane un altro: cosa intendiamo per “competitività”? Al mondo, un territorio è competitivo se: 1) fabbrica le tue stesse cose ad un costo più basso; 2) fabbrica cose che gli altri non sanno fare.

I sardi del XXI° secolo, eccetto poche eccellenze, non riescono a fare né la prima e né la seconda cosa.

Perché?

Per un mix di fattori: culturali, politici ed istituzionali qui lunghi da riassumere.
Un dato certo, per invertire il trend ed incrementare la produttività della Sardegna, oltre ad investire in formazione, riguarda la necessità di tagliare la spesa pubblica per lasciare più ossigeno alle imprese.

Un’analisi dell’economista Thomas Manfredi (2018) – a titolo esemplificativo – mostra il livello dei salari pubblici e privati dell’Italia in rapporto a quelli della Germania nell’arco di un ventennio.

Come si può facilmente osservare, i salari del settore pubblico italiano sono cresciuti più della Germania, nonostante l’Italia non possieda affatto la forza economica della Germania; mentre quelli del settore privato italiano (su cui campa il pubblico) gravitano a livelli drammaticamente contenuti.

Insomma, in Italia il problema non sono solo gli stipendi di politici come Paolo Maninchedda, ma soprattutto il costo delle pensioni e della generale spesa pubblica alimentata dai nostri politici, che drena imponenti risorse alle imprese, ostacolandone la crescita, e sussidiando quelle improduttive con le più ridicole giustificazioni possibili.

Orbene, dopo il Veneto, anche la Sardegna dovrebbe dotarsi di un’Assemblea Nazionale Sarda. Ma se non vogliamo che l’assise si trasformi nell’ennesima passerella di luoghi comuni, senza escludere i sardisti, forse sarà il caso di iniziare a ragionare sui temi concreti con cui calibrare al meglio le nostre politiche. Tagliare IRAP e costo del lavoro dovrebbero essere punti in cima a qualsiasi agenda indipendentista.

Pensiamoci.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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