Lo stallo culturale dell’indipendentismo sardo
Esiste una larga fetta dell’indipendentismo sardo secondo cui lo sviluppo deriverà dalla campagna, ma, come tanti sostenitori di Autodeterminatzione, secondo una visione decrescista, “bio” e comunitarista, da contrapporre all’industria, “nemica dell’ambiente”.
O pensiamo alla confusione di Liberu, che da un lato auspica una crescita del settore, e dall’altro si oppone al CETA, che incrementò l’export caseario.
Oltre a queste fantasiose visioni precapitaliste della realtà vi è quella sovranista, rintracciabile nel Partito dei Sardi: in esso non si contesta il ruolo dell’industria ma si ritiene che la crescita e il generale livello dei salari dipendano sempre e solo dal grado di redistribuzione della spesa pubblica.
È il “modello superfisso” descritto da Brusco, un ibrido ideologico risalente ai tempi di Sraffa e Leontief. E che ignora cosucce come l’innovazione tecnologica e il ruolo allocativo dei prezzi sul mercato.
Di Adriano Bomboi.
Poniamoci nei panni di un osservatore esterno all’indipendentismo sardo e chiediamoci: in che modo questo ambiente politico dovrebbe o potrebbe rappresentare un’alternativa rispetto alla politica italiana?
Non è facile rispondere ad una domanda del genere. Soprattutto perché le soluzioni prospettate da un discreto numero di indipendentisti sardi sono del tutto identiche alle politiche dei partiti italiani. O addirittura meno credibili di queste ultime e dunque destinate alla marginalità politica.
Lo si evince dal peso e dalle singole posizioni riservate da alcune sigle indipendentiste ad alcuni argomenti relativi all’economia dell’isola.
Se osserviamo, ad esempio, Autodeterminatzione, benché non si dichiari avversa all’industria, i suoi programmi tendono ad esaltare le virtù del settore primario (agricoltura/allevamento), ambiti del tutto assistiti, in luogo delle fabbriche (identificate perlopiù coi problemi causati dall’industrializzazione avvenuta negli anni della “Rinascita”, a seguito dell’intervento pubblico). Per tanti suoi sostenitori la natura viene vista in contrapposizione all’artificio umano dell’industria e dell’innovazione tecnica, considerate inquinanti.
La semplificazione operata da questo paradigma ideologico porta a ritenere la Sardegna come “naturalmente orientata” all’agricoltura. Un’agricoltura tuttavia non moderna ma neoluddista, rivolta al passato: priva di chimica, di bioingegneria e di meccanizzazione; ma estensiva, che consuma suolo, acqua, risorse umane e materiali. Ossia un’agricoltura precapitalista, di mera sussistenza, osannata da alcuni intellettuali marxisti del secolo scorso. In cui in realtà vi era la più completa incapacità di penetrare i mercati; cioè un modello pauperista, che comportava povertà diffusa, scarsa qualità di beni e servizi (non il contrario), alti tassi di denutrizione e mortalità infantile.
In nome de “su connottu”, questo paradigma ideologico tende dunque a contrapporre una monocultura agraria ad una monocultura (invece non troppo produttiva) di matrice industriale (che include anche le manifatture). Sostituendo semplicemente un problema con un altro, senza ragionare approfonditamente sull’opportunità di uno sviluppo sano di entrambi i settori economici. Pensiamo, altro esempio, alla confusione di Liberu, che da un lato auspica una crescita del settore primario e dall’altro si oppone al CETA, il trattato sul commercio che incrementò l’export caseario.
A questa interpretazione primitiva della realtà, che salda ideologie acclini agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, miscelandole a teorie “alternative” attuali e prive di credibilità (come il decrescismo), se ne somma un’altra analoga. Anch’essa risalente al secolo scorso.
Pensiamo a Paolo Maninchedda del Partito dei Sardi, il quale ha auspicato un intervento pubblico (legislativo od economico) per risolvere il problema dei bassi salari dei sardi. Come se questi non avessero alcuna relazione con l’occupazione, con il livello di produttività del nostro sistema economico e dunque anche con l’innovazione tecnologica. Né col fisco o la burocrazia.
Il salario, sulla base del pensiero di Piero Sraffa (1898-1983), sarebbe così una variabile indipendente da tutto il resto. Idem la produzione agricola, che non sarebbe condizionata da alcun elemento dinamico nel tempo e nello spazio. Una teoria bollita già da decenni ma ancora in voga presso sindacati, sovranisti gialloverdi e sinistra radicale. Talvolta tendenti a simpatizzare con idee no global e protezionistiche, che danneggerebbero i consumatori.
L’economista Sandro Brusco commentò queste castronerie in un famoso articolo del 2007, riassumendo le caratteristiche di errori così diffusi presso politici e giornalisti, in un “modello superfisso”. Il quale, se fosse reale, presupporrebbe che, solo per citare qualche esempio illustrato dall’autore:
a) il mondo non cambia. La gente ha bisogno di mangiare sempre gli stessi quantitativi di pecorino romano, di usare lo stesso numero di scarpe e di percorrere lo stesso numero di chilometri in macchina, anno dopo anno. Tali beni verranno inoltre prodotti allo stesso modo: non esiste progresso tecnologico, se non quello uniforme che, cambiando tutto nella stessa proporzione, non cambia nulla. Non ci sono pertanto rilevanti fluttuazioni nella produzione dei beni di consumo, il ché a sua volta implica che non ci sono rilevanti fluttuazioni nell’occupazione dei fattori di produzione, in particolare il lavoro.
b) sono fissi anche i metodi di produzione. Per produrre una scarpa ci vuole x cuoio, z macchine e y lavoro. Ne discende che non solo i prezzi relativi dei beni, ma anche i prezzi relativi dei fattori di produzione sono irrilevanti, dato che comunque la stessa combinazione di capitale, lavoro e materie prime va usata in ogni caso. Siccome poi i bisogni, e quindi la quantità di cose da produrre, sono anch’essi fissi, risulta fissa e non dipendente dai prezzi relativi la quantità totale di fattori (in particolare, il lavoro) che viene impiegata in una economia.
Inoltre, essendo tutto fisso, ora e per sempre, è anche irrilevante la forma contrattuale che si adotta per l’acquisto dei fattori di produzione. Per produrre 10 tonnellate di pasta l’anno servono, diciamo, due lavoratori. Assumerli a tempo indeterminato o a tempo determinato non fa alcuna differenza, dato che tanto si produrranno 10 tonnellate di pasta l’anno per sempre. Quindi, se d’imperio si trasformano i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, l’unica conseguenza è di carattere distributivo. I lavoratori a tempo indeterminato non possono essere minacciati da licenziamento, hanno maggiore potere contrattuale e quindi spuntano salari più alti. Non esiste alcuna altra conseguenza negativa.
Il “modello superfisso” non conosce il ruolo allocativo dei prezzi: nega la possibilità che i prezzi agiscano da “segnali” che informano la decisione di acquistare un dato bene o un dato servizio, etc. E nega la possibilità di avere imprese tecnologicamente avanzate ed ecosostenibili, tanto in agricoltura quanto nell’industria.
Inutile dilungarsi, il lettore attento ha indubbiamente compreso dove vogliamo arrivare e le pericolose conseguenze economiche che avrebbero alcune romantiche idee indipendentiste: lo sviluppo economico della Sardegna sarà possibile solo quando le sue avanguardie politiche comprenderanno di doversi sviluppare culturalmente. Altrimenti non sarebbero “avanguardie” ma ignare e velleitarie replicanti di teorie già estinte da tempo nel dibattito scientifico.
E se l’indipendentismo intende realmente offrire un contributo alla crescita dell’isola, non potrà esimersi da questo percorso.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
Condivido quasi tutto ma mi sembra che regalare quasi una privativa di indipendentismo, gli indipendentisti, a una galassia estremamente minoritaria cdi soggetti politici che si definiscono indipendentisti,
Non sia giusto . Come si evince dal tuo articolo al massimo potrebbero essere identificati come indipendentisti di estrema sinistra e vien difficile specificare se trozkisti, comunisti, anarchici, sutuazionisti, antagonisti, cattocomunisti, settari, etc. sino a qualche setta para religiosa scentologizzante ….sta di fatto che è il PSdAz la forza dominante indipendentista e non sto qui ad argomentare oltre . Molte sono le differenze naturalmente come in ogni area politica nazionalista. E se da buoni e convinti nazionalisti si capisse che su punti base anche solo tatticamente si debba essere d’accordo, sopratutto elettoralmente, oggi saremmo come nazionalistibdi gran lunga il primo partito in sardegna dando vita ad un vento nazionalista difficilmente arrestabile.