L’agonia del commercio sulcitano e l’ombra dello Stato

In un territorio attraversato dal tramonto dell’industria, anche e soprattutto la piccola impresa non costituisce più un’ancora di salvezza per tante famiglie sarde.

Se soventemente infatti sentiamo parlare di sfruttamento dei lavoratori da parte degli imprenditori, oggi è l’oppressione fiscale e burocratica dello Stato la prima causa di sfruttamento a spese di tante partite IVA. A cui fa da contorno una politica locale incapace di comprendere i problemi sistemici, ma anche di valorizzare le piccole comunità locali, costrette alla ricerca di un sussidio.

L’intervento di Manolo Mureddu, con la testimonianza di una giovane commerciante di Carbonia.

Fa sempre un certo effetto ascoltare lo sfogo di chi, nonostante la crisi economica e le difficoltà burocratiche, prova a sollevare la testa nella nostra comunità, rischiando e tentando di realizzare qualcosa in proprio.

Come la coraggiosa quanto giovane madre che ho incontrato ieri nella centralissima via Gramsci a Carbonia (della quale ometto qualsiasi riferimento per rispetto della privacy), letteralmente esasperata per l’andamento della sua attività commerciale; arrovellata fra un fisco oppressivo e le problematiche derivanti da un centro cittadino oramai desolato e, inoltre, dall’atteggiamento del nuovo governo italiano, che invece di adoperarsi per lenire le difficoltà di chi resiste “facendo impresa”, assume quasi un atteggiamento punitivo, criminalizzante e, in alcuni casi, preventivamente censorio.
Mi ha raccontato, questa giovane, con gli occhi lucidi dall’emozione e un pizzico di rabbia, del suo scoramento, della delusione nel lavorare senza sosta e nel non riuscire a vedere i frutti del proprio lavoro a causa dell’elevatissima pressione fiscale.

«Questo mese - ha sussurrato con un filo di voce -, al netto delle spese sostenute mi son rimaste in cassa 300 euro. Come si può vivere con 300 euro e contestualmente mandare avanti la propria famiglia? Ho sempre più la tentazione di chiudere ed entrare a far parte della platea di persone che percepiscono il Reddito di Cittadinanza…»

Un’amara considerazione che non lascia però stupiti: per lavorare gratis, senza portare a casa nemmeno la “pagnotta”, tanto vale chiudere i battenti. Si parla tanto (a ragione) di sfruttamento dei lavoratori, cioè dei dipendenti. Ma una partita IVA (artigiano o commerciante fa poca differenza) costretta a lavorare senza a guadagnare e con la (perenne) “spada di damocle” dell’agenzia delle entrate sopra la testa che di colpo potrebbe vanificare il lavoro di una vita, non è ugualmente sottoposta a vessazione e in qualche modo a sfruttamento? Certamente non da parte di un caporale o di un proprietario d’azienda irrispettoso delle leggi e della dignità dei propri dipendenti ma, in un certo senso, proprio dallo Stato. Ossia da quell’entità che dovrebbe garantire pari diritti ai suoi cittadini ma che invece…

Dietro a una partita IVA, lo dimentichiamo troppo spesso, c’è un lavoratore in carne ed ossa che prova a crearsi o a mandare avanti una famiglia.

Ed è pienamente comprensibile anche la provocazione sul Reddito di Cittadinanza, se si pensa che tra coloro che percepiscono l’indennità di sostegno contro la povertà assoluta ci sono di sicuro molti espulsi dal mondo del lavoro o davvero impossibilitati (per ragioni di varia natura) a trovare un’occupazione e quindi a mantenersi. Ma anche tanti altri che appartengono alla platea dei PVC (“poveri volontari cronici”) che, dalle conoscenze acquisite e maturate in tema di sotterfugi, trucchi e scorciatoie, per ottenere forme di assistenza e benefici destinati ai meno abbienti, potrebbero contribuire alla stesura di un vero e proprio trattato scientifico.
Inoltre, non mettiamo la testa sotto alla sabbia come gli struzzi, esiste già un mercato parallelo di consumi ad personam avviati grazie al reddito di cittadinanza. Non mancano i casi di cronaca al riguardo.

E ci sono giovani che, a 20-25 anni, al posto di abbandonare gli ormeggi e andare a provare nuove esperienze formative e professionali altrove, si adagiano e ambiscono a ottenere unicamente l’assistenza.
Per loro, un messaggio pedagogico devastante.

Nondimeno, non va dimenticato, nel reddito di cittadinanza esiste la parte inerente le politiche attive del lavoro. Attendiamo di capire come verrà articolata nella pratica in territori come il nostro ove la domanda di lavoro è gravemente insufficiente e i salari spesso inferiori o paragonabili al valore medio economico dell’assistenza sociale. Ma soprattutto dove esiste un debilitante deficit formativo e scolastico per gran parte di coloro che ambiscono a trovare un lavoro e che quindi sono penalizzati in partenza.
La nostra fiduciosa attesa dei cosiddetti “navigator” si chiede cosa proficuamente produrranno in tema di avvicinamento fra l’asimmetrica offerta e domanda di lavoro.

Queste considerazioni ci riportano al tema iniziale: perché una persona come la giovane commerciante, oggetto di questa riflessione, dovrebbe continuare a sacrificare, intraprendere e, soprattutto, rischiare di schiantarsi, se, molto tranquillamente, potrebbe essere assistita?
Per orgoglio e dignità, di sicuro. Per provare a guadagnare meglio e più. Ma quando ogni mese, asfissiata dalle tasse e affranta da un numero sempre minore di clienti o a capacità di spendita ridotta, non riesce a sbarcare il lunario, a cosa servono l’orgoglio e la dignità? Mangiarli o utilizzarli come moneta di scambio? Ovviamente no, questo non è possibile.
E (domanda retorica) se la Costituzione sancisce, all’articolo 53, un principio fondamentale: ovvero che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, siamo davvero sicuri che le tasse, dirette e indirette, pagate dalla commerciante di via Gramsci siano eque e, soprattutto, realmente rispondenti ai principi fissati nel dettato costituzionale?

Tuttavia, andando oltre i concetti sopra espressi, anche per ampliare la sfera del ragionamento, è evidente che le problematiche del centro cittadino sono, inoltre, riconducibili all’assenza fisica di clienti.
Un po’ perché si è persa l’abitudine a uscire di casa e fare due passi per svagarsi od effettuare le proprie compere; da molto tempo ormai si scelgono prevalentemente i centri commerciali. Un altro po’ invece perché, come anticipato, con la chiusura delle grandi realtà produttive del territorio e il conseguente contraccolpo economico su tutti gli altri settori, si sono persi negli anni molti posti di lavoro. E di conseguenza è venuta meno la capacità di spendita per molte famiglie obbligate a risparmiare nell’acquisto di prodotti; spesso anche quelli di prima necessità.
Orbene: meno lavoro, meno soldi e dunque meno consumi. Una desertificazione sociale e commerciale.

Tesi veritiera ma solo fino a un certo punto. Perché basta andare in un grosso centro commerciale cagliaritano la domenica per accorgersi della presenza di tanti cittadini di Carbonia (e del territorio). I quali, legittimamente, in quanto consumatori, spendono i propri soldi nel capoluogo ma non a Carbonia.
Esistono, dunque, coloro che hanno disponibilità economica. Ma perché preferiscono spendere altrove?
È semplice: perché a Carbonia, centro di quasi 28mila abitanti, è tutto chiuso. Perché non ci sono servizi di intrattenimento e allettanti attrattive per le famiglie, in particolare nel fine settimana. Perché frequentare il centro di Carbonia non è più appassionante.
E qui entra nuovamente in gioco, ancora una volta, la politica. Cosa si è realizzato di concreto negli ultimi anni per rivitalizzare il centro cittadino e la via Gramsci? Oltre le estemporanee manifestazioni di intrattenimento e/o culturali e il “Nottinsieme” d’estate?
Il centro cittadino è o dovrebbe essere per la città il cuore pulsante, il suo tratto distintivo; la sua storia, le sue radici e quindi la sua anima.
E non, come a Carbonia, purtroppo, l’emblema della decadenza.

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Redazione SANATZIONE.EU

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