Agropastorizia: è sempre un valore aggiunto o pure un costo sociale?

Agropastorizia sarda, analisi CREA 2010-2020: l’isola registra l’incidenza degli aiuti pubblici più alta della media italiana.

Dietro le tante eccellenze del settore e del mito del buon pastore a salvaguardia del territorio si cela pure un altro volto, tutt’altro che edificante. Con aziende contrassegnate da bassa produttività e incapacità di stare sul mercato.

Un costo per i contribuenti, costretti a spesare produzioni che spesso non acquistano in qualità di consumatori. Un problema politico e culturale, prima che economico, per diverse ragioni.

Ecco perché, con qualche curiosità.

Di Adriano Bomboi.

Passate in sordina al grande pubblico, ignorate dalla stampa e dagli intellettuali, ma ben note agli esperti del settore, le analisi dei campioni RICA/CREA del Ministero delle Politiche Agricole rappresentano una miniera di preziose informazioni per la comprensione del settore agropastorale sardo del decennio appena trascorso.

Il primo dato con cui nessun politico e nessun intellettuale sardo ha il coraggio di misurarsi riguarda il grado di incidenza degli aiuti pubblici nel settore primario dell’isola: si sfiora il 50% per le aziende sarde (46,9% rispetto ad una media italiana del 31%). [1].

Una percentuale preoccupante, non tanto per il grado di dipendenza delle nostre aziende dai sussidi, senza i quali non esisterebbero (una caratteristica comunque diffusa nell’agricoltura mondiale), quanto per il basso grado di performance ottenuta rispetto ai sussidi erogati.

Per comprendere la serietà del problema bisogna infatti rapportare il dato ad altri parametri, tra cui, ad esempio, la produttività, poi la redditività di queste imprese, e la loro capacità di investire.
Soffermiamoci solamente su alcuni indicatori.

In Sardegna la produttività agricola del lavoro si situa ad un valore di 45.450 euro, rispetto ai 53.437 euro della media italiana.
Da considerare che i costi correnti incidono in egual misura sia per la Sardegna che per la media italiana (40,1% e 40,2%), in rapporto tuttavia ad una produttività agricola della terra che in loco si situa a 1.113 euro, rispetto ai 3.621 euro della media italiana.
Inoltre, il grado di meccanizzazione del terreni si attesta ad 1,7 Mw per ettaro in Sardegna, a fronte dei 6,7 Mw per ettaro della media italiana.

Cosa significa tutto ciò?

In sintesi, migliaia di aziende sarde spendono più soldi pubblici della penisola, hanno un grado di meccanizzazione inferiore ed ottengono meno risultati della media italiana, sia in termini produttivi che reddituali.
Si spende, si lavora tanto, meno bene, e si guadagna meno.
A questo punto è lecito domandarsi: ha senso per migliaia di sardi investire in perdita e farsi spesare dagli altri contribuenti?

Individuare una risposta a questa domanda comporta un inevitabile approccio di natura culturale.

In primis, sul piano analitico, dobbiamo considerare la dimensione aziendale: la maggioranza delle imprese sarde (10.147), possiede una dimensione economica che varia da 4mila a meno di 25mila euro, e solamente 176 aziende hanno una dimensione economica superiore ai 500mila euro [2].

In secondo luogo, ma non meno importante, abbiamo il 73% degli operatori sardi che come titolo di studio possiede solamente la licenza elementare o di scuola media. Accompagnato da un 2% che non possiede alcun titolo, mentre solo un 6% possiede una laurea, ed il 19% un diploma [3].

La diffusa assenza formativa del nostro capitale umano diventa così terreno fertile per una serie di narrazioni tossiche, promosse da anni in lungo e in largo da politici e intellettuali.

Alle periodiche crisi del mondo agropastorale, per ragioni elettoralistiche, viene fatto fronte tramite puntuali e ulteriori sussidi pubblici che non mirano a risolvere il problema della scarsa competitività delle nostre imprese, ma a conservarne i limiti, spostando in avanti nel tempo dei nodi destinati ad irrigidirsi ulteriormente.

Un clima politico, come anticipato, a sua volta supportato da quello culturale, dove schiere di intellettuali, scrittori, opinionisti vari e giornalisti, promuovono una visione mitica della figura dell’agricoltore, e soprattutto di quella dell’allevatore. Quest’ultimo indicato come presidio essenziale del territorio, immerso in una romantica conduzione della propria attività su base estensiva, considerata pure più “ecocompatibile”, e dedito a produrre alimenti sani, al riparo dalla massificazione globale.
Il tutto per promuovere “un ritorno alla terra” anche da parte delle nuove generazioni.

Un “ritorno” che in realtà, a fronte di varie eccellenze all’avanguardia e di qualità, vede pure tante microaziende scarsamente meccanizzate, operanti in strutture al limite della fatiscenza, che abusano di acqua e fanghi di depurazione non trattati, utilizzati per la fertilizzazione del terreno. Con scarsa osservazione delle più elementari norme igienico-sanitarie, e bestiame allocato in spazi inquinati da eternit ed un errato uso e dosaggio di vari prodotti chimici per la cura o l’eradicazione delle colture.

Non di rado, e i numeri parlano da soli, tali aziende a conduzione familiare si specializzano nella trattazione di ovini e suini (di piccola taglia), per semplice lascito ereditario, contribuendo ad inflazionare l’offerta di un prodotto non adeguatamente richiesto dal mercato (vedere latte ovino destinato a pecorino romano). Col conseguente crollo dei prezzi, mentre tendono ad orientarsi meno nella trattazione di altri capi di bestiame, soprattutto bovini, che sul mercato presentano invece una redditività media più alta [4].

Nel triennio 2014-2016 le aziende sarde hanno fatto registrare una performance nettamente in calo rispetto alla media italiana, segnate da un alto livello di indebitamento con le banche e difficoltà di accesso al credito, uniti alla bassa propensione all’innovazione, con forte dipendenza dal mercato locale. Tutti fattori che determinano un’incapacità di crescita ed espansione sui mercati [5].

In conclusione, l’isola necessita di sviluppare un approccio più realistico sul proprio mondo agropastorale. Al riparo da autorassicuranti bugie e pericolose narrazioni ideologiche che rischiano di far perdere ulteriore terreno alle nostre imprese nel mercato globale, con i prevedibili costi sociali che potrebbero conseguirne.

Per ulteriori dati e valutazioni si consiglia il libro: “Problemi economico-finanziari della Sardegna”, di Adriano Bomboi (Condaghes, Cagliari 2019).

Fonti:

- Rapporto RICA 2020/MPA – Le aziende agricole in Italia (PDF);
- Rapporto CREA 2018/MPA – La Sardegna in cifre (PDF).

Note:

[1] Rilevazione 2016, Rapp. CREA 2018, pag. 55.
[2] Area RICA, Rapp. CREA 2018, pag. 52.
[3] Elaborazione ISTAT 2013, Rapp. CREA 2018, pag. 103.
[4] F. Floris, Rapporto RICA 2020/Sez. Sardegna, pag. 255.
[5] F. Floris, Rapporto RICA 2020/Sez. Sardegna, pag. 253.

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U.R.N. Sardinnya ONLINE

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