Indipendentisti: la nostra visione delle cose
La chiamata all’unità indipendentista di Maninchedda dei giorni scorsi ha sviluppato un piccolo dibattito.
Sollecitato da alcuni amici ho dunque deciso di scrivere un pensiero più articolato sul perché la cultura amministrativa dell’ex sardista non può ancora rappresentare un cambiamento positivo per l’isola.
Adriano Bomboi.
Sarò breve, tanto è stato già detto e scritto in questo spazio.
Osservare lo scarno dibattito indipendentista di questi tempi non può che animare tutto lo sconforto di ogni riformista, soprattutto se poniamo la lente di ingrandimento sulle premesse che lo riguardano.
Ad offrircene una vivida fotografia è Paolo Maninchedda, ex sardista, poi fondatore dello sfortunato Partito dei Sardi, passato dalle stelle alla polvere nel volgere di una legislatura regionale.
La cultura amministrativa che ha messo in campo si iscrive appieno nella stessa cultura politica che sta mandando a fondo l’Italia: corporativismo, assenza di competitività, assistenzialismo, interventismo e dirigismo pubblico, accompagnato da deficit spending verso realtà fuori mercato, il tutto sorretto da una ideologia nazionalista (o sovranista, come si dice oggi) di matrice socialista.
Esempi pratici?
Pensiamo al disastroso salvataggio di Abbanoa a spese dei contribuenti, alla fantomatica agenzia delle entrate in cui entra ben poco, ai corposi mutui per lavori pubblici, all’assegnazione verso la Regione dell’amministrazione delle dighe per finalità energetiche, all’influenza nella sanità, o alla sua vicinanza ad Antonello Cabras del PD, emblema dell’anomalia di un partito che continua a controllare la principale fondazione bancaria del territorio. Un costume che fa il paio con la cultura creditizia italica, rovinata da anni di lottizzazione politica in nome del mitico supporto bancario “alle imprese locali”, quando invece ciò che manca all’Italia (e alla Sardegna) sono gruppi creditizi competitivi, al pari della concorrenza internazionale, liberi da montagne di NPL (leggetevi il mio ultimo libro), in grado di stare sul mercato e non di supportare avventurismi spesati dalla collettività.
Incredibilmente, nella sua arringa Maninchedda se la prende con gli altri nazionalisti, stile “America first”, o “prima gli italiani”, pur essendone pienamente speculare.
Insomma, disgraziatamente, la politica di Maninchedda, a cui in tanti avevamo creduto, si è adagiata nelle sabbie dell’immobilismo. Un terreno da cui non può arrivare nulla di buono per un’isola che non deve scappare dalla globalizzazione (come teorizza Maninchedda nella sua sterile critica al libero mercato, e in questo aspetto supportato persino da intellettuali marxisti come Omar Onnis). Perché l’isola ha bisogno di accrescere la propria competitività in un mondo che non attenderà i granitici tempi della nostra politica.
Ai sardi serve ben altro.
Naturalmente non siamo ingenui, sappiamo che una nuova e ipotetica forza indipendentista liberaldemocratica dovrebbe agire con un programma moderato, o viceversa, un’isola pesantemente attraversata da assistenzialismi e corporazioni parassitarie, ormai abituate a compensare col denaro pubblico la propria incapacità di fare impresa, non consegnerebbe un solo voto alla necessità del cambiamento.
Dobbiamo porci dalla parte delle imprese, delle partite IVA e degli autonomi in generale, battendoci per ridurre loro il carico burocratico e fiscale, ma allo stesso tempo tagliando progressivamente tutta quella spesa pubblica che oggi tiene in vita privilegi e inefficienza diffusa, oltre a consentire la drammatica replicazione delle sacche di povertà in tutta quella fascia di popolazione che oggi non trova alternative ai sussidi per poter sopravvivere.
Noi non vogliamo una politica che si riduce a promuovere “cantieri verdi” per finalità di welfare.
Vogliamo una politica che promuova un’isola in cui un individuo possa trovare il suo posto nel mercato del lavoro. Una politica in cui i cantieri si attivano solamente se utili a imprese e cittadini.
Non vogliamo neppure un’isola che sia ostaggio di disastrosi oligopoli parapubblici, come Tirrenia o Alitalia, stipendiati dai contribuenti.
Né vogliamo una sanità dove la moltiplicazione delle poltrone dirigenziali precede il problema dei lunghi tempi di attesa dei pazienti.
E neppure vogliamo una giustizia che si attiva solamente a seguito di opinabili trasmissioni televisive (vedere Report).
Men che meno vogliamo un’isola in cui lo studio e pure la lingua siano considerabili come contrattempi rispetto all’accesso nel mondo del lavoro (magari verso professioni a basso valore aggiunto, con redditi al limite della sussistenza).
In sintesi, o l’indipendentismo si pone come motore e forza propulsiva di una riforma della nostra società, o l’unica alternativa per le nuove generazioni continuerà ad essere rappresentata dall’emigrazione all’estero.
Se gli indipendentisti non sapranno unirsi attorno a questa consapevolezza, ripudiando spazi politici che hanno ormai esaurito ogni prospettiva di riforma, ogni unificazione politica sarà, non solo elettoralmente velleitaria (giacché continueranno ad affermarsi partiti conservatori di destra e sinistra), ma persino nociva, in quanto accompagnerà e supporterà l’opera di devastazione politica, morale, sociale, culturale ed economica oggi in corso.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE
Ex Sardista? O DEMOCRISTIANO TRAVESTITO DA SARDISTA?