Come riconvertire la fabbrica delle bombe di Domusnovas?
Come riconvertire la fabbrica delle bombe di Domusnovas? E quanto ha pesato l’azione dei pacifisti sardi nella crisi dell’impresa?
Mentre la “Tesla cinese” investe in un’azienda sarda, il governo revoca la licenza alla RWM di Domusnovas e allo stesso tempo consente la vendita di una nave da guerra alla marina militare del regime egiziano, iscrivendo 200 lavoratori sardi nella lunga lista di operai di industrie in declino a caccia di prospettive future.
Eppure, l’esperienza italiana ci suggerisce che prima di avviare nuove iniziative, politiche ed imprenditoriali, sarebbe bene capire quali evitare.
Di Adriano Bomboi (online anche su NODAS Sardegna).
C’è stato un tempo in cui i ministeri della difesa di vari paesi occidentali si chiamavano “ministeri della guerra”. La crescita delle democrazie nel secondo dopoguerra ha prodotto un’evoluzione dei vecchi principi costituzionali, tale da inquadrare il comparto militare come utile alla difesa della pace, e non più destinabile all’aggressione verso l’esterno.
Le fabbriche di armi si sono così evolute parallelamente a questo principio: sul piano giuridico, il legislatore le considera essenziali alla difesa della pubblica sicurezza (pensiamo alle armi della Polizia), mentre su input politico, che raccoglie istanze popolari di tipo etico-morale, può vietare la vendita di armi verso paesi non democratici. Anche se in realtà, la storia umana, come nel genocidio del Rwanda o in quello cambogiano, ci dimostra che i più grandi massacri possono avvenire pure con scarso o nullo utilizzo di armi da fuoco. O che magari le armi da fuoco sarebbero state utili alle vittime per proteggersi dalle aggressioni. Pensare dunque che uno stop alle armi porti automaticamente alla pace rappresenta una visione alquanto ingenua della complessa realtà internazionale.
Nel caso della RWM la revoca della licenza subita dal governo italiano appare anche paradossale se pensiamo che al momento l’Italia ha venduto una fregata militare di classe Bergamini al regime egiziano, ben noto per la persecuzione degli oppositori politici e per l’assassinio di Giulio Regeni. Il che suggerisce che lo stop alla RWM non deriva da considerazioni di natura morale, né dalla sparuta azione dei pacifisti sardi, ma probabilmente da contingenze di natura politica, interna ed internazionale. Pensiamo alla centralità di Matteo Renzi nella battaglia per la composizione del nuovo governo italiano, e pure al suo potenziale conflitto di interessi in qualità di senatore italiano e consulente del Regno saudita. Mentre negli USA la neo-amministrazione Biden frena gli appetiti sauditi e tenta di riequilibrare i rapporti con l’Iran, ossia i due principali contendenti della guerra per procura in corso nello Yemen, una delle principali destinazioni finali delle bombe tedesche prodotte in Sardegna.
Sul piano economico invece, benché supportate da ampie commesse pubbliche, le imprese di materiale bellico costituiscono voci in attivo nel PIL dei territori in cui operano, perché la loro specializzazione le pone a pieno titolo nelle produzioni ad alto valore aggiunto. E in Sardegna non accade nulla di diverso: il materiale bellico, a differenza di altri beni, esprime uno dei capitoli più redditizi del nostro tessuto economico.
Il caso della RWM si differenzia da altre crisi industriali proprio per queste ragioni: non rappresenta un prodotto in crisi sul mercato, perché il suo tramonto deriva da una scelta politica (giusta o sbagliata che sia). L’esito della crisi tuttavia trascina operai altamente qualificati nell’arena di un contesto politico-culturale molto difficile, nel quale non esistono facili soluzioni a breve termine.
Vi sono infatti diversi elementi di dibattito del tutto assenti nel nostro mondo politico.
In primis, ancora una volta, una politica trasversalmente ostile al libero mercato non considera che l’iniziativa di riqualificare o riconvertire un’azienda spetta alla proprietà dell’azienda stessa.
La politica non deve sostituirsi alle imprese.
Nel caso di specie, la Rheinmetall Defence, che controlla RWM Italia S.p.a., deve valutare se lo stabilimento sardo potrà occuparsi ancora di munizioni per testate di calibro medio-grande, o se potrà orientarsi su un’altra gamma di materiali bellici, presenti nel proprio portafoglio, trattabili nello stesso stabilimento.
Nel frattempo l’azienda sta tentando un ricorso per tenere aperte le linee produttive. La sede di Ghedi nel bresciano ha infatti evidenziato al governo di essere stata arbitrariamente colpita, a differenza di altre importanti aziende di armi, e per di più in una fase in cui il conflitto nello Yemen si troverebbe in una fase calante.
Dopodiché potrebbe subentrare la decisione di dismettere completamente l’impianto, oppure, pratica alquanto diffusa, di affidarsi al denaro dei contribuenti come strumento per ritardare l’inevitabile.
Con quest’ultima opzione si apre il classico scenario dell’eccezionalismo italiano – per usare una definizione cara a Mario Seminerio -, ossia l’idea che il settore pubblico sappia sempre e comunque risollevare un’impresa trovando nuovi investitori, oppure favorendo improbabili processi di riconversione della stessa, gettandovi costantemente dentro ingenti finanziamenti pubblici. Casi emblematici come Alitalia, Ilva ed ex Alcoa, stanno ancora lì a dimostrare l’inefficacia di questa costosa presenza pubblica, spesata a danno dei contribuenti. I quali, nella migliore delle ipotesi, dovranno continuare a sussidiare gli operai estromessi dal ciclo produttivo.
La spirale del declino si materializza nel momento stesso in cui la classe politica non produce alcuna visione di medio-lungo termine, ma si limita ad accompagnare il presente, anche con proposte mediatiche prive di credibilità. Per esempio l’idea che si possano usare soldi europei del Recovery per trasformare la RWM di Domusnovas in un caseificio. Una follia che non tiene conto di due aspetti alquanto evidenti: il primo è che il Recovery non può essere utilizzato per spese correnti, senza efficaci riforme che rallentino il declino italiano. Peraltro in corso da qualche decennio, e non solamente a causa del Covid. Il secondo è che i proponenti non considerano che il settore lattiero-caseario versa in condizioni strutturali di crisi, e non si ascrive neppure nel quadro di produzioni ad alto valore aggiunto che potrebbero sperare di garantire una buona reddività dell’impresa.
Altri in Sardegna l’hanno compreso, non il settore pubblico, ma quello privato. Per esempio Abinsula, emblema dell’importanza di investire e di formarsi, non più romanticamente nel solo settore agropastorale, ma nelle nuove tecnologie. L’azienda sassarese infatti svilupperà software nel settore dell’automotive per Xpeng, la “Tesla cinese”, azienda produttrice di veicoli elettrici, interessata ad espandersi anche nei mercati occidentali.
Teniamo conto che, in un futuro non troppo lontano dell’auto, l’informatica avrà un ruolo sempre più crescente, e in cui probabilmente i grandi costruttori diverranno meri sviluppatori e assemblatori meccanici, mentre il cuore dei veicoli, che un giorno potrebbe soppiantare persino un guidatore umano, diverrà il computer. Un computer che gestirà, tramite delle app, i servizi di accompagnamento alla guida.
Con ogni evidenza, la nostra classe politica non ha una visione del mondo globale di domani, né del presente, né delle opportunità di business che si stagliano all’orizzonte. Men che meno ha compreso l’utilità di rilanciare lo sviluppo della Sardegna all’insegna della formazione e dell’istruzione, limitando il peso della burocrazia e del fisco alle imprese. Che non devono essere guidate per sempre tramite nocivi sussidi pubblici, che portano al declino. E non ha neppure compreso l’importanza di diversificare il nostro tessuto economico, evitando di mitizzare settori si importanti, come quello agropastorale, ma che non possono essere considerati come una leva con cui immaginare la crescita di un intero territorio.
In conclusione, ciò che dobbiamo riconvertire è la nostra mentalità, e non un’impresa.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE