La festa della consunzione
Passata la festa di una Repubblica in declino, si palesa tutta la stanchezza dell’indipendentismo sardo, ormai avvitato nei soliti rituali: c’è la gita fuori porta contro le basi militari, le bandiere rosse e di partito che coprono quella nazionale, l’imprecazione verso i Savoia, la trita citazione di Gramsci, l’ennesima piattaforma di dialogo tra movimenti praticamente identici, e le t-shirt nere come il lutto, sintomo delle loro prospettive politiche. Quasi non ci si bada più.
Nel frattempo il paese è incapace di produrre nuova ricchezza, e il trasversale populismo politico alimenta l’invidia sociale. Come?
Puntando sulla retorica della redistribuzione.
Non potendo tassare di più i redditi e il lavoro, ci si orienta sul patrimonio, cercando di cannibalizzare la ricchezza dei cittadini accumulata in tempi migliori. Ultimo stadio di un ceto politico specializzato nell’estrazione di risorse altrui.
Cosa abbiamo da dire al riguardo?
Di Adriano Bomboi.
Di recente i non molti commentatori politici seri d’Italia hanno trovato un punto in comune su cui anche questo umile spazio concorda: la politica italiana non intende fare i conti coi vincoli imposti dalla realtà.
Il paese ha smesso di crescere?
Pazienza, qualcuno se ne occuperà. Nel frattempo bisogna ingrassare la propria saccoccia, e mettere al riparo congiunti e galoppini vari.
Questa mentalità aristocratica si rileva anche in Sardegna, in cui purtroppo gli amici del PSD’AZ hanno un ruolo attivo. Pensate alla nuova moltiplicazione delle ASL e a quella delle Province, nonostante un referendum consultivo si sia già opposto a questa proliferazione di poltrone.
Sfortunatamente, anche l’indipendentismo extra-sardista preferisce la fuga dalla realtà: al posto di affrontare i problemi del proprio territorio, magari organizzando iniziative contro l’espansione della macchina pubblica, o a favore del plurilinguismo (come sostiene Giuseppe Corongiu), si preferisce sposare le cause altrui, come quella palestinese. Oppure quelle secondarie, come quella contro le basi militari, che sono il prodotto e non la causa del sottosviluppo economico locale.
Inevitabilmente, i sardi finiscono abbandonati al proprio destino. Preda di un futuro in cui ci sarà solamente debito pubblico, un ulteriore crollo dell’efficienza dei servizi ed emigrazione.
A nessuno interessa creare una piattaforma programmatica che orienti l’agenda politica verso pochi ma importanti obiettivi.
Tra questi, quello di investire sulla formazione e sulla qualità della formazione. La Sardegna ha bisogno di far crescere il proprio capitale umano. Pochi i laureati, e mai abbastanza i laureati nelle discipline scientifiche.
Senza competenze non c’è crescita, individuale e collettiva.
E senza crescita non ci sarà neppure l’opportunità di far fronte alla montagna di debito pubblico accumulata, perché ci sarà una progressiva contrazione delle entrate, a fronte di una spesa che non viene mai seriamente tagliata o riqualificata per ragioni di consenso elettorale.
Del resto l’isola rispecchia gli stessi mali del mezzogiorno italiano, e di tutto il paese.
Anche i laureati vedono svilire il proprio impegno sul mercato del lavoro. Mediamente, un italiano fresco di laurea guadagna meno di un suo omologo inglese, tedesco e svizzero. Ogni anno, qualche rapporto, dal “Remuneration Planning” di Willis Towers Watson, a Mercer, ci illustra valori che partono dai 28mila euro lordi circa l’anno di un giovane professionista locale rispetto ai circa 50mila euro di un tedesco. Non buona la situazione italiana neppure se si paragona il potere di acquisto del nostro stipendio al costo della vita e delle imposte.
Ma non aspettatevi amministratori che parlino di una riduzione di queste ultime, la nostra classe politica non ha affatto in mente una riforma complessiva del fisco, come caldeggiata da Mario Draghi, ma una deliberata aggressione ai patrimoni. Perché lo scopo di una politica clientelare e assistenziale non è quello di garantire le basi di una crescita duratura, lasciando ossigeno a cittadini e imprese, ma quello di accumulare nuove entrate con cui elargire bonus e mancette a precise porzioni di elettorato ed ai propri fiduciari. La tattica ha una sua logica: non potendo tassare ancor più i redditi e il lavoro, i populisti fanno ciò che sanno fare meglio, cioè promuovere una retorica in cui si individuano dei nemici interni (“i ricchi/i benestanti”), facendoli passare come maramaldi che avrebbero approfittato delle sfortune collettive.
Nulla di nuovo nella storia.
In tal modo si creano le basi per l’assalto ai patrimoni, non dei “grandi benestanti” (formula generica che indica tutti e nessuno), ma l’intero corpo dei contribuenti. I segnali ci arrivano interamente dalla stampa italiana. Pensate a quegli articoli che rilanciano slogan del tipo: “le successioni in Italia si pagano meno che in altri paesi”.
Ovviamente senza spiegare che gli “altri paesi” hanno un fisco complessivamente meno pesante dell’Italia, o che addirittura non grava sulle successioni come terzi paesi OCSE (vedere Austria). E senza spiegare che l’Italia infrastrutturata ai tempi d’oro del boom economico sta iniziando a crollare, pezzo dopo pezzo, per assenza di adeguate risorse nelle manutenzioni.
Di fronte al degrado di questa politica e persino alla svalutazione dello studio, che in Italia non viene adeguatamente premiato dal mercato, abbiamo almeno la consapevolezza di dover insistere sulla crescita della nostra cultura come base per affrontare il sottosviluppo. L’ultima relazione della Corte dei Conti ci offre qualche speranza, dei numeri a cui aggrapparci.
Ad esempio, sappiamo che i laureati con un lavoro a tempo pieno guadagnano mediamente il 37% in più di un lavoratore a tempo pieno munito del solo diploma, mentre questa forbice negli altri paesi si allarga al 54%.
Se non invertiremo la rotta, occupandoci di questi argomenti, saremo corresponsabili del peggioramento delle condizioni socio-economiche dell’isola, e saremo indirettamente complici di una politica ignorante, che farà pagare ai nostri figli il prezzo del suo potere.
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U.R.N. Sardinnya ONLINE