Prioritario tenere vivo il tema della riforma della legge elettorale regionale
Archiviata l’esperienza delle elezioni regionali, anche stavolta oltre 60mila elettori non avranno alcuna rappresentazione nel nuovo Consiglio Regionale, come ha ben illustrato Gianraimondo Farina su Tottusinpari.
Luca Tolu evidenzia come questo limite freni ogni aspirazione riformistica dell’isola, tenendoci nello status quo e danneggiando ulteriormente la credibilità della nostra democrazia, che si riduce ad uno sterile tifo da stadio tra le due maggiori coalizioni al voto:
Non era necessario, ma le elezioni regionali in Sardegna ci hanno ricordato ancora una volta che non basta avere istituzioni democratiche di facciata se non è presente una cultura democratica inclusiva di base che garantisca diritto di rappresentanza anche a chi sta fuori da un bipolarismo calato dall’alto. Non può esserci democrazia compiuta e sana se gli attori politici non riconoscono a tutti il diritto all’esistenza all’interno di quella sede istituzionale che ha il compito di rappresentare tutti i sardi.
Ho letto in più occasioni negli ultimi giorni lo sfogo di diversi sardi, confidanti che “non sarebbero andati più a votare”, o addirittura che il “modello di democrazia liberale andrebbe sostituito con altro tipo di regime” (ragionamento molto pericoloso). Peccato che il problema non sia l’istituzione in sé, ma una legge elettorale illiberale confezionata ad hoc per impedire anche ai movimenti per l’autodeterminazione dell’isola di eleggere propri rappresentanti. Perché abbiamo una legge che consente di entrare in Consiglio Regionale ad esponenti di liste civiche strumentali, non radicate sul territorio, nate due mesi prima del voto, ma sbarra l’ingresso a chi ottiene poco meno del 10%. Cioè una legge fortemente antidemocratica, che spinge ancora più i sardi verso la disaffezione, lo sconforto e l’apatia in una realtà dove già attualmente la metà dell’elettorato non si reca alle urne.
Se sommiamo coloro che non vanno a votare ai tanti che si recano alle urne turandosi il naso, possiamo agilmente affermare che, anno dopo anno, osservando la curva dell’astensione, non esiste più la fiducia di un tempo nel metodo democratico. Per non parlare poi di chi partecipa come “male minore”, esprimendo un voto falsato dalla logica del cosiddetto “voto utile” o addirittura dalla paura dell’altro.
Tutto ciò è preoccupante. Ed è chiaramente una patologia che mette a rischio la tenuta del sistema perché fa decadere la caratteristica più importante della democrazia: la rappresentatività, ovvero includere in un consesso plurale le cognizioni politiche dei rappresentati.
Se Todde avesse anche solo il 5% delle doti fantasmagoriche che i suoi supporter le affibbiano sui social network in questi giorni, scomodando addirittura Eleonora d’Arborea e Paschedda Zau (ci sono sempre, ahinoi, i più realisti del re), tra le prime iniziative ci sarebbe proprio l’iter di modifica della legge elettorale.
Ai miei studenti dico sempre che, in linea teorica, dove c’è frammentazione, il sistema elettorale più rappresentativo (quindi più democratico se intendiamo la democraticità come la maggiore capacità di rappresentare il più possibile le diverse componenti di una società) è il proporzionale puro. Questo, naturalmente, non potrà mai garantire una solida maggioranza. Ma le correzioni a suo tempo introdotte nell’attuale legge elettorale (con uno sbarramento al 10%) sono draconiane e pericolose.
L’unica strada per salvare la governabilità senza uccidere la democraticità è abbassare la soglia di sbarramento e introdurre i due turni: per dare spazio il più possibile al primo turno e distribuire i collegi del premio di maggioranza a chi vince nel secondo turno (ballottaggio). In poche parole: proporzionale quasi puro e doppio turno come nelle elezioni comunali. Il doppio turno ha anche il pregio di coinvolgere tutto l’elettorato – compresi gli elettori delle forze più piccole – nello scegliere il Presidente, che sarebbe così realmente indicato da una vera maggioranza e non dalla minoranza più forte.
In definitiva, la democrazia nell’isola è malata. Occorre curarla intervenendo il prima possibile. A meno che non si abbia timore di una democrazia più sana, con un Consiglio Regionale che dia spazio ai tanti sardi che vedono diversamente il futuro dell’isola. Ma forse è proprio questo il problema.
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Redazione SANATZIONE.EU