Limba sarda: L’invenzione del campidanese e del logudorese

 

Di Roberto Bolognesi (fonologo, PhD Università di Amsterdam).

Com’è nata la fittizia suddivisione in due della lingua sarda?

Il naturalista Francesco Cetti, sbarcato in Sardegna nel 1765, con lo scopo di studiare la fauna dell’isola, definisce la situazione nel modo seguente: “Si divide pure questo continente in parte meridionale, e in parte settentrionale con altri nomi, chiamando la parte meridionale Capo di sotto, e la settentrionale Capo di sopra. L’appellazione è fondata sulla verità: andando da mezzodì a tramontana si va sempre montando, dove più dove men sensibilmente, laonde la parte settentrionale viene realmente a essere più elevata dell’altra; inoltre nella parte meridionale si trova la massima pianura dell’isola, perciò la parte settentrionale fa vista di più montuosa ed ardua e la meridionale di più piana ed umile. Ma i confini di questi due Capi di sopra e di sotto non sono bene definiti; fra Bonarcado e Santu Lussurgiu comincia per tutti il Capo di sopra, perché ivi l’elevazione è in realtà più sensibile, ma poi procedendo verso levante la linea di divisione si smarrisce; uguale montuosità si trova a destra, e a sinistra, cessa il fondamento della divisione, e la divisione non è più che arbitraria, e incerta, onde in luogo medesimo si trova chi si ascrive al Capo di sopra, e chi a quel di sotto. Il più naturale sarebbe tirare in avanti la linea incominciata sopra Bonarcado, facendola passare per Fonni, dividendo così tutto il regno in due parti uguali, e la metà meridionale sarebbe il Capo di sotto, per essere nella massima parte più umile e più bassa della metà settentrionale, che sarebbe il Capo di sopra. In alcuna cosa si distinguerebbe però allora tuttavia il Capo di Sotto dal Capo di Cagliari; la molteplicità delle divisioni non può produrre se non confusione, però meglio sarebbe avere per ora per una stessa cosa Capo di Cagliari, e Capo di sotto, come molti fanno, e come intenderò io pure innanzi.” (Cetti, 2000:63-64).
Come si può vedere, Cetti ha il problema “pratico” (amministrativo?) di dividere la Sardegna in due parti uguali, basandosi, per esempio, sull’orografia. Ben conscio del fatto che una tale suddivisione è arbitraria, decide comunque di effettuarla.
La linea passa leggermente a nord di Fonni.

Come si vede, l’idealizzazione proposta dal Cetti non trova riscontro nella realtà: il Capo di sotto, come da lui proposto, contiene sì la pianura principale, ma anche quasi per intero il massiccio del Gennargentu (il più elevato della Sardegna), oltre a altri due complessi di montagne con diverse cime che superano i 1000 metri di altitudine. Oltre al Campidano, poi, si trovano soltanto la piana del Cixerri e la parte pianeggiante del Sulcis.
A questo punto, e in modo ancora più sommario, decide anche di suddividere la lingua nazionale della Sardegna (1) in due varietà che, a questo punto necessariamente, devono corrispondere alla suddivisione dell’isola in due capi: “Nella lingua propriamente sarda il fondo principale è italiano; vi si mischia il latino nelle desinenze, e nelle voci; vi è pure una forte dose di castigliano, un sentor di greco, un miscolin di franzese, altrettanto di tedesco, e finalmente voci non riferibili ad altro linguaggio, che io sappia. Voci prettamente latine sono Deus, tempus, est, homine, ecc.; latine sono le desinenze in at, et, it, us, nella coniugazione dei verbi; dicono meritat, devet, consistit, dimandamus. Parole castigliane sono preguntare, callare, querrer, ecc.; e castigliane sono le deninenze in os, peccados, santos, ecc. Le terminazioni in es, dolores, peccadores, ecc. rimane libero ad ognuno avere per latine, o per castigliane. Il sapor di greco lo pretendono alcuni sentire negli articoli su, sos, is; e dicendo berbegue per pecora, non pare questo un poco del brebis franzese? E dicendo si sezer per sedersi, non ha questo l’odore del sich sezen tedesco? Como per adesso, petta per carne, e altri vocaboli non so che sieno analogi per altre lingue. Due dialetti principali si distinguono nella medesima lingua sarda; ciò sono il campidanese, e ‘l dialetto del Capo di sopra’. Le principali differenze sono, che il campidanese ha in plurale l’articolo tanto maschile quanto femminile is e ‘l Capo di sopra dice in vece sos e sas; inoltre il campidanese termina in ai tutti i verbi che il Capo di sopra finisce in are, non senza altre differenze di parole, e di pronuntzia. ” (Cetti, 2000:69-70).
Cetti chiaramente non era un linguista, né sarebbe potuto esserlo in quel tempo. Dopo aver tracciato una divisione geografica della Sardegna, che lui stesso ammette essere arbitraria, fornisce due caratteristiche, in base alle quali l’isola si può—visto che, per lui, si deve—dividere anche linguisticamente in due. Tutto qui.

Marinella Lőrinczi, sulla base di questo brevissimo passaggio di Cetti—naturalista, ribadiamo, non linguista—che lei oltretutto non cita letteralmente, ritiene di poter trarre le seguente conclusioni: “La percezione tradizionale dei dialetti sardi viene registrata nel Settecento dal naturalista Francesco Cetti nell’introduzione ai Quadrupedi di Sardegna [1774, ora in Cetti 2000: 70]. Il Cetti linguista è stato segnalato per la prima volta in Lőrinczi [1993]. Per Cetti il complesso linguistico sardo si divide nel dialetto del Capo di Sopra (detto anche Capo di Sassari) e in quello del Capo di Sotto (o del Capo di Cagliari), cioè il campidanese in senso lato. Egli fornisce anche le principali ‘isoglosse’ in base alle quali si operano (tradizionalmente?) tali distinzioni: l’articolo determinativo plurale is del campidanese è indifferente ai generi, mentre i dialetti del Capo di sopra oppongono sos~sas; in secondo luogo, alla desinenza -ai dell’infinito campidanese corrisponde -are nel Capo di sopra; a queste differenze se ne potrebbero aggiungere altre “di parole, e di pronunzia” [per altre annotazioni fatte dal Cetti ‘linguista’ v. Lőrinczi 1993, ma soprattutto il Cetti stesso, recentemente ripubblicato]”. (2).

Quello che Lőrinczi tralascia di riportare è il fatto che, ai tempi di Cetti, gli abitanti stessi della zona centrale non sapevano esattamente a quale capo appartenessero: “[…] onde in luogo medesimo si trova chi si ascrive al Capo di sopra, e chi a quel di sotto.” Possiamo quindi, sulla base di quello che il Cetti medesimo riporta, escludere che la divisione netta della Sardegna in due capi sia qualcosa che i Sardi stessi effettuavano “tradizionalmente” almeno là dove tale distinzione potrebbe essere rilevante. Inoltre, non si comprende né perché le due ‘isoglosse’ menzionate dal Cetti debbano essere considerate “principali”, né da chi.

Un’altra autorità storica che viene invocata, per poter suddividere il sardo in due varietà nettamente distinte, è il canonico Giovanni Spanu. Lo Spanu è l’autore di “Ortografia sarda nazionale, ossia grammatica della lingua loguderese paragonata all’italiana (1840). Giovanni Spanu, di Ploaghe, nella sua grammatica fece coincidere il sardo, con la varietà locale di cui era parlante e distingue questa dalla “varietà meridionale”. (3).
Nella prefazione al dizionario dello Spanu (Vocabolario Sardo-Italiano e Italiano-Sardo, Cagliari, 1851-1852), scritta dal suo editore, si trova l’espicita suddivisione del sardo in due varietà nettamente separate: “Tra le otto famiglie di dialetti che originarono la lingua italiana, havvene due che alla nostra isola si appartengono, la Sarda e la Sicula, parlata la prima nelle parti meridionali e centrali, la seconda nelle parti settentrionali. […] Pisani e Genovesi come intaccarono il nazionale governo, ci guastaron pure la unità di lingua.” Mentre gli Spagnoli: “[…] molto la bruttarono nelle parti meridionali da formare quasi un distinto dialetto”. Insomma, sassarese e gallurese (le due varietà non linguisticamente sarde parlate nel settentrione dell’isola) vengono definiti come dialetti siciliani, mentre più avanti si ritrova il tema delle pretese influenze del pisano e genovese medievali sul sardo meridionale, riprese poi dal Wagner e dai suoi adepti. (4).

Ancora più avanti si trova l’esplicita divisione del sardo in due gruppi, effettuata non in base alle caratteristiche strutturali dei vari dialetti, ma in base alla geografia: “Il dialetto sardo quindi rimase distinto in due gruppi, il meridionale parlato in Cagliari, Iglesias, Tortolì, Oristano, in quanti insomma vivono da Spartivento al Belvì; il centrale parlato in Logudoro da Gennargentu fino a Limbara.” Spanu (1851-52). (5). Questo è quanto riguarda le fonti tradizionali, sulle quali si basa la suddivisione del sardo in due varietà nettamente distinte.

Nel solco di questa tradizione si è inserito, come influentissimo sostenitore del “bipolarismo linguistico”, Max Leopold Wagner che, come abbiamo visto al paragrafo precedente, aveva in proposito delle idee già ben formate nel momento stesso in cui pose piede in Sardegna per la prima volta. Ciononostante, dopo aver compiuto i suoi studi pluridecennali sulla storia delle parole sarde, arriva alla seguente e ambigua conclusione: “Di fronte al logudorese, il quale è spezzettato in tante varietà dialettali, il campidanese ha il vantaggio di una maggiore unità e uniformità” (Wagner, 1951:56). Cioè, qui Wagner si contraddice palesemente: da un lato parla di “logudorese”, come se questo fosse una varietà ben definita, dall’altro poi ammette si tratta in effetti di “tante varietà dialettali”. Al prossimo paragrafo vedremo quanto sia in effetti articolata la situazione dialettologica in Sardegna.

Fonti:
(1) “Le lingue che si parlano in Sardegna si possono dividere in istraniere e nazionali” (Cetti, 2000:69).
(2) http://people.unica.it/mlorinczi/files/2007/04/5-sappada2000-2001.pdf
(3) È istruttivo prendere conoscenza dell’opinione sull’accuratezza dell’operato dello Spanu espressa da un linguista che pure considera quelle del canonico come “opere di straordinaria importanza”: “Le due opere dello Spano, ma soprattutto la prima, sono viziate da notevoli errori di impostazione. Sia sufficiente accennare alla scelta di una ortografia latineggiante, factu «fatto», gratia «grazia», homine «uomo», nepta «nipote», promptu «pronto», ecc. […] Non lo si può negare: la grafia latineggiante scelta dallo Spano fu un suo grave errore, il quale finì col ritardare parecchio la nascita di una grafia propriamente sarda, ossia di una grafia che, pur restando ovviamente nell’ambito della tradizione grafica del latino, risultasse più adatta e più funzionale per un uso pratico e moderno di una nuova e differente lingua divenuta ormai adulta ed autonoma rispetto alla sua madrelingua. Ciononostante le due opere dello Spano sono di straordinaria importanza, in quanto aprirono in Sardegna la discussione sul “problema della lingua sarda”, quella che avrebbe dovuto essere la lingua unificata ed unificante, che si sarebbe dovuta imporre in tutta l’Isola sulle particolarità dei singoli dialetti e suddialetti, la lingua della Nazione Sarda, con la quale la Sardegna intendeva inserirsi tra le altre Nazioni europee, quelle che nell’Ottocento avevano già raggiunto o stavano per raggiungere la loro attuazione politica e culturale, compresa la Nazione Italiana.” (Massimo Pittau, premessa a Grammatica del sardo illustre, Carlo Delfino Editore, Sassari 2005).
(4) Per una confutazione di questi pregiudizi infondati, si veda Bolognesi & Heeringa (2005).
(5) https://books.google.nl/books?id=KA49AAAAYAAJ&dq=canonico+spanu&printsec=frontcover&source=bl&ots=_cQd_p0DPr&sig=Qur4KUdkbqjkKO-kRksmS-MDpxQ&hl=nl&ei=qGDdSvmdLMrz-Qbmmfky&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum=7&ved=0CCEQ6AEwBg#v=onepage&q&f=false.

In: Bolognesu, 10-11-2010.

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Redazione SANATZIONE.EU

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